venerdì 26 aprile 2013

Un nuovo incipit


Tempo fa ho rifatto l’incipit de "Il Profumo” di Patrick Süskind (Traduzione di G. Agabio, Tea, 1988), trasformando le sensazioni olfattive in sensazioni visive.
Ovvio che il colore del romanzo dovesse essere il nero


Patrick Süskind
MtA
Al tempo di cui parliamo, nella città (Parigi, XVIII sec., n.d.r.) regnava un puzzo a stento immaginabile per noi moderni.


Le strade puzzavano di letame, i cortili di orina, le trombe delle scale di legno marcio e di sterco di ratti, le cucine di cavolo andato a male e di grasso di montone;


le stanze non aerate puzzavano di polvere stantia, le camere da letto di lenzuola bisunte, dell’umido dei piumini e dell’odore pungente e dolciastro dei vasi da notte.



Dai camini veniva puzzo di zolfo, dalle concerie veniva il puzzo dei solventi, dai macelli puzzo di sangue rappreso.


La gente puzzava di sudore e di vestiti non lavati; dalle bocche veniva un puzzo di denti guasti, dagli stomaci un puzzo di cipolla e dai corpi, quando non erano più tanto giovani, veniva un puzzo di formaggio vecchio e latte acido e malattie tumorali.





Puzzavano i fiumi, puzzavano le piazze, puzzavano le chiese, c’era puzzo sotto i ponti e i palazzi. 


Il contadino puzzava come il prete, l’apprendista come la moglie del maestro, puzzava tutta la nobiltà, persino il re puzzava, puzzava come un animale feroce, e la regina come una vecchia capra, sia d’estate che d’inverno.”
Al tempo di cui parliamo, nella città regnava un’assenza di luce a stento immaginabile per noi moderni.


Le strade soffocavano nel fosco di palazzi malridotti, i cortili restavano in ombra, le trombe delle scale salivano immerse nell’ oscurità e le cucine erano avvolte dal cupo di fuliggine e ceneri.

Le stanze nascoste dai pesanti tendaggi celavano la vergogna della polvere stantia, della muffa di lenzuola mal lavate, delle cimici e dei pidocchi ingrassati dal calore dei piumini, dei vasi da notte ossidati di urina giallognola e putrida, lasciati nell’incuria sotto i baldacchini.
Dai camini saliva il tetro delle esistenze, dalle concerie emanava il fosco della rivolta, dai macelli fluiva lento il rosso del sangue versato per la pinguedine di corte.
La gente era ombra di sudore, miseria sospesa nei vestiti laceri; le bocche erano smorfie di fame e di disgusto, frastagliate del vuoto di denti caduti, dagli stomaci salivano voci consumate frammiste alle bestemmie e i corpi, quando non erano più tanto giovani, rilucevano pallidi di inedia.




Avvolti in una mesta caligine si stendevano i fiumi, le piazze, le chiese abbandonate dagli uomini e dai lumi, era il lutto sotto i ponti e nei palazzi. 

Il contadino era nero come il prete, l’apprendista come la moglie del maestro, nera era tutta la nobiltà, persino il re era nero, nero come un animale feroce e la regina come una capra blasfema, tutto svaniva in ombra sia d’estate che d’inverno.




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