mercoledì 23 dicembre 2009

Uzoma Emeka

Da: Roberto Malini
Inviato: martedì 22 dicembre 2009 22.32
A: EveryOne Group
Oggetto: Uzoma Emeka, nigeriano testimone di abusi nel carcere di Teramo, è morto a 32 anni per "cause naturali"


Milano, 22 dicembre 2009. In Italia il razzismo ha raggiunto punte di una gravità mai vista. La legge razzista 94/2009 ha trasformato i migranti, i Rom e i profughi in esseri senza diritti, che vivono nascosti e braccati come topi, per timore dei Cie, delle violenze in carcere e della deportazione. Stranieri assassinati o aggrediti non fanno più neanche notizia. Nelle scuole è comune che bambini e ragazzi insultino pesantemente i compagni di origine straniera, specie se hanno la pelle scura o sono di etnia Rom. Nelle strade, l'intolleranza è frequente e quotidiana. Persino negli stadi, è ormai normale sentire cori contro i calciatori di origine africana, fra cui il recente "Un negro non può essere italiano", intonato dai tifosi della Juventus Torino, che regolarmente inneggiano alla morte del giovane campione di origine ghanese Mario Balotelli. Sono episodi che si risolvono con una multa di scarsa entità. 


Venerdì scorso il giovane 32enne nigeriano Uzoma Emeka, rinchiuso nel carcere di Castrogno (Teramo) è morto in circostanze misteriose. Il 22 settembre 2009 aveva assistito al pestaggio da parte delle guardie di un altro detenuto e aveva avuto il coraggio di denunciare il crimine. Dopo tale atto di coraggio, avrebbe dovuto essere trasferito per evitare possibili ritorsioni da parte del personale penitenziario. Invece niente, è stato lasciato lì, dove è morto. Come accade nel 50% delle morti misteriose, che raggiungono percentuali più alte nel caso di vittime straniere, le autorità hanno spiegato la tragedia "per cause naturali". Ci si chiede quali siano le cause naturali che possano uccidere un ragazzo di 32 anni. Se si trattava di una malattia incurabile, perché era ancora detenuto? Se si tratta di altre cause, che siano spiegate e il caso non venga ancora una volta insabbiato. Ancora una volta segnaliamo alle Istituzioni europee e all'Alto Commissario Onu per i Diritti Umani l'episodio e la situazione dell'intolleranza in Italia, anche se abbiamo notato come l'attuale legislatura sia restia a stigmatizzare tali episodi, anche a causa del fato che la maggior parte dei protagonisti delle ultime Risoluzioni dedicate ai diritti civili non sono stati neppure ricandidati dai rispettivi partiti alle recenti elezioni europee.






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sabato 19 dicembre 2009

Dispensario delle parole estinte: Amicizia, amore

"Ognun vede, a un dipresso, le differenze che corrono tra l'amicizia e l'amore, anche quando le non sono differenze di sesso.
Può esservi amicizia, e innocente, tra uomo e donna: amore tra donna e donna, uomo e uomo.
Se non che, l'amore può essere affetto naturale di padre a figliuolo o a figliuola, di madre a figliuola o a figliuolo; l'amicizia non è da natura nell'uomo, ma la conciliano la simpatia e l'abitudine.
Più: l'amore, dove non sia da natura, può comportare certa disuguaglianza; l'amicizia richiede conformità d'opinioni e di stato.
Un tutore, in parte almeno, ama il suo pupilo; un vecchio prende ad amare un bambino: cotesta non si dirà certo amicizia.
Tra vecchi e giovani, tra superiore e inferiore, essa è quasi impossibile.
Così, nell'amore di sesso diverso, tra moglie povera e marito ricco, tra uomo colto e donna rozza, sarà viva la corrispondenza dell'amore, ma difficile potrà stringersi vera amicizia.
Cos' anco nelle affezioni naturali, è raro che il figlio divenga veramente amico di suo padre.
Inoltre l'amicizia è più stabile; l'amore può scemarsi, spegnersi, mutarsi in orrore.
La vera amicizia, anche cessata, lascia dietro a sé, quasi a guardia del tempio abbandonato, l'affetto."

Niccolò Tommaseo, Nuovo dizionario dei sinonimi della lingua italiana, quarta edizione milanese accresciuta e riordinata dall’autore, Milano per Giuseppe Reyna, Librajo-Editore, M.DCCC.LVIII

Voce 313- Amicizia, Amore, pag. 55


venerdì 18 dicembre 2009

Dispensario delle parole estinte: Alzamento

"Sollevazione non è che traslato: il levarsi di moltitudine non piccola a rumore per sdegno cruccioso. Il primo moto della sollevazione potrebbe dirsi sollevamento: ma questo ha poi senso proprio: sollevamento di terreno, di superficie qualsiasi. Sempre però è l'idea di forza che spinge di sotto in su, e anco per questo differisce da innalzamento, che per lo più rende imagine di maggiore altezza. Chi crede innalzarsi, oppur sollevarsi, sollevando altrui a ira, prepara a sé e ad altri caduta e giacere più grave.
Non sollevate le moltitudini, ma innalzatele.
Innalzamento e nel proprio o nel traslato; alzamento, nel proprio."

Niccolò Tommaseo, Nuovo dizionario dei sinonimi della lingua italiana, quarta edizione milanese accresciuta e riordinata dall’autore, Milano per Giuseppe Reyna, Librajo-Editore, M.DCCC.LVIII

Voce 294 - Sollevamento, Sollevazione, Innalzamento, Alzamento, pag. 50


giovedì 17 dicembre 2009

Dispensario delle parole estinte: Amante

"L'innamorato, per lo più, chi non ha colti ancora i frutti materiali dell'amore.
Ha buono e mal senso: ma oggidì l'ha sovente ridicolo, perchè ridicolo pare chi confessa l'amore; confessare l'odio è cosa più nobile a molti.
Amoroso, in molti dialetti, l'innamorato o il damo; ma nel toscano non ha questo senso comunemente, e serbasi solo alle parti teatrali: primo amoroso, secondo amoroso.
Il ganzo può essere vecchio o giovane, bello o brutto, purché sia stromento d'illecito piacere o di lucro turpe. Questo i latini chiamavano amasio.
Questo, con vocabolo più forte, noi chiamiamo drudo; che aveva senso innocente in antico, ora l'ha di dispregio.
Amico, voce nobilissima, acquistò in tempi miseri, senso affine a ganzo e a drudo. E in certe città non è quasi vergogna dire di donna: ha l'amico."

Niccolò Tommaseo, Nuovo dizionario dei sinonimi della lingua italiana, quarta edizione milanese accresciuta e riordinata dall’autore, Milano per Giuseppe Reyna, Librajo-Editore, M.DCCC.LVIII

Voce 301- Amante, Innamorato, Amoroso, Amasio, Amico, Ganzo, Drudo, pag. 51



venerdì 11 dicembre 2009

CRONACHE DI UNA ZINGARA

GIOVANNA DA FORZA, CRONACHE DI UNA ZINGARA NELLA LOMBARDIA DEL ‘600

di Enrico Masci


Leggendo un curioso racconto di cronache italiane del ‘600 raccolte e commentate da Andrea Zanardo, si ha la conferma di come la percezione nei confronti degli zingari non sia mutata nel corso dei secoli. Questo racconto dal titolo “Cingari, Bravi, Soldati di Ventura nella Lombardia Spagnola” raccoglie oltre a una serie di bandi, editti, grida e cacce all’uomo, aventi come oggetto gli zingari, o “cingari” come venivano chiamati allora, anche interessanti documenti personali quali, passaporti e salvacondotti rilasciati dalle autorità dell’epoca.
Risulta interessante rilevare come, a fronte di prestazioni a valore aggiunto e nella fattispecie quelle svolte dai Soldati di Ventura, l’atteggiamento delle classi dominanti divenisse rispettoso, anche nei confronti dei cingari, arrivando a premiare i vari servigi resi con apprezzabili vantaggi sociali.
In questo ‘600 italiano, le condizioni igieniche malsane e la pessima alimentazione portavano a periodiche epidemie di peste. Già a partire dal secolo precedente, gli zingari venivano accusati di diffondere il morbo, di “portare il male” a causa del loro stile di vita promiscuo, nomade e libertino (interessante questo aspetto riguardante le abitudini sessuali) e per questo furono condannati a lasciare il Ducato di Milano (1506).
Agli inizi del Seicento il cardinale Federico Borromeo, quello dei Promessi Sposi per intenderci, è responsabile della persecuzione di donne accusate di essere “strigae”, incolpando inoltre “quei vagabondi che vengono chiamati cingari” di rapire i bambini cattolici. Leggende come questa erano diffuse anche tra i letterati e gli uomini di cultura e accuse simili toccavano tutte le minoranze, primi fra tutti gli ebrei, accusati di compiere gli stessi crimini efferati.
Tra queste cronache italiane, particolarmente significativa è la vicenda di una zingara che ebbe risalto e notorietà in tutta la Lombardia.
Giovanna da Forza nasce a Novara nel 1639, sposa lo zingaro e “Soldado de Ventura” Ambrogio Cazzaniga che grazie alla sua professione riceve dal Governatore di Milano il “libre Passaporte [...] y que no pueda ser molestado”. In questa cronaca si manifesta subito un aspetto interessante che caratterizzerà la storia degli zingari nel nostro paese, cioè la legittimità della loro presenza elargita attraverso un riconoscimento sancito dai poteri forti e la conseguente persecuzione fisica esercitata in sua assenza. L’Italia quindi risulta un paese europeo storicamente assai coerente.
Nel 1675 anche i figli di Giovanna e Ambrogio ottengono un “libre Passeporte”, in cui Giovanna viene definita “de Nacion Gitana”. Il significato di questo frammento cronachistico è notevole. La nazione gitana è chiaramente un’invenzione, tuttavia esprime la necessità di classificare un popolo non aderente ai canoni, arrivando ad immaginare un’ipotetica nazione con cui relazionarsi. Nonostante i limiti, questo approccio oggi sarebbe considerato eretico e surreale, anche se è capitato di vedere, in un documento della Repubblica Italiana rilasciato ad uno zingaro nel 2006, una fantomatica “Cittadinanza Slava”.
Nel 1681 la famiglia di Giovanna viaggia attraverso la Lomellina e la Brianza assieme a una quarantina di altri cingari, tra essi sei soldati di ventura di cui uno, Giovanni da Giussano si era distinto nella campagna d’armi presso la città di Tortona. La storia è in grado di offrire aneddoti insperati infatti, la famiglia “da Giussano”, da cui prende il nome la cittadina lombarda, ha come illustre antenato il leggendario Alberto, capitano della Compagnia della Morte ed eroe della Battaglia di Legnano del 29 maggio 1176 combattuta tra i Comuni lombardi e l'imperatore Federico Barbarossa. Si deve ammettere che registrare tra i discendenti dell’eroe della Lega un valoroso zingaro riconcilia con il pregiudizio razzista, per mezzo dell’ironia insita nelle esistenze.
Le cronache d’epoca continuano a segnalarci la presenza assidua di questa famiglia allargata presso i mercati di Melzo e Settala. Nel 1694 viene conferito alla ormai 55enne Giovanna da Forza un salvacondotto di alto profilo, che le dava diritto di viaggiare con la sua famiglia “per tutte le terre del Ducato senza venire molestata”. L’autorità che questi documenti conferiscono a Giovanna da Forza, fa ragionevolmente supporre che la stessa avesse diritto di rappresentare i suoi numerosi parenti nelle mansioni più qualificate come, il supporto logistico delle carovane che spesso erano al seguito delle truppe, le trattative politiche per gli insediamenti temporanei e i percorsi di attraversamento, le negoziazioni con i nobili lombardi per il recruitment delle truppe, l’approvvigionamento e cosi via.
Alla fine di questa rumorosa esistenza tra soldati, bambini, carovane, parenti, nobili, preti e nipoti, Giovanna poteva contare in un numero impressionante di passaporti e salvacondotti intestati a lei e attraverso di lei alla sua famiglia: una vera matriarca (ad esempio di suo marito Ambrogio non si registrano altri permessi a parte quello ottenuto prima delle nozze).
Mentre in precedenza i cingari uomini, in qualità di capifamiglia, ottenevano passaporti e licenze di transito, nel ‘600 tali licenze venivano concesse anche alle cingare. Fra le altre si può ricordare Cecilia Pallavicino, che nel 1681 si spostava liberamente tra la Germania e l’Italia. Risulta evidente che nel XVII secolo molte donne cingare lombarde iniziavano a svolgere un lavoro fondamentale: la gestione del rapporto con le autorità gagè (i non zingari) e che questo nuovo incarico difficile e tutto politico venne a trasformare molte donne zingare lombarde nei capi delle loro famiglie.
Cosa sia rimasto oggi di tutto questo è difficile da valutare, forse romanticamente è rimasto qualcosa nella laboriosità e nell’intraprendenza femminile lombarda. Certo è che, nonostante le condizioni ambientali notevolmente avverse, Giovanna da Forza, donna, straniera e diversa, fu in grado di conquistare prestigio tra i suoi cingari e grande rispetto tra i gagè. Peccato si tratti di una storia di 4 secoli fa.



mercoledì 9 dicembre 2009

Dispensario delle parole estinte: Ubertà

"- L’abondanza d’una miniera sta nel molto metallo che da quelle si trae; la ricchezza, nel valore di esso metallo. L’abondanza può produrre ricchezza. – Laveaux.

Abondanza gran quantità di cose di specie qualsiasi; ricchezza, possessione di danari non pochi, e di beni che servono agli usi del vivere; opulenza, quantità di agi e di potere, forniti da larga ricchezza.

L’abondanza può essere nociva, la ricchezza inutile, l’opulenza è sempre goduta.
In un paese privo di commercio e d’industria, l’abondanza delle miniere non è per anche ricchezza.
L’avaro è ricco ma non opulento.

- Ricche, e le persone e le cose; opulente, solo le persone, o le città e i regni, guardati come persone.
Si può godere una certa abondanza, e non esser ricco; può il ricco stentare, e non vivere in abondanza. – Boinvilliers.
- Dovizia è quantità che serve appieno all’uso, e ne sopravanza alquanto. Ubertà è abondanza dei doni della terra e degli animali che l’agricoltura educa e alimenta. Ha qualche traslato. – Gatti."

Niccolò Tommaseo, Nuovo dizionario dei sinonimi della lingua italiana, quarta edizione milanese accresciuta e riordinata dall’autore, Milano per Giuseppe Reyna, Librajo-Editore, M.DCCC.LVIII

Voce 72 – Abondanza, Ricchezza, Opulenza, Dovizia, Ubertà

http://books.google.com







martedì 8 dicembre 2009

Dispensario delle parole estinte: Abondanza, Copia

"Copia è meno. Ci può essere copia di una cosa senza abondanza. La voce abondanza sta di per sé, ed ha efficacia; copia perché acquisti peso uguale all’altra, ha bisogno dell’aggiunto di grande, grandissima. Per questa ragione diremmo col Boccaccio: abondantissima copia; ma non potremmo: copiosa abondanza.
L’esser più generico e men forte dà a copia un qualche vantaggio.
Ed è, che abondanza può prendersi in senso più facilmente sinistro che copia. Copia di parole, senz’altro, non indica mai difetto; abondanza di parole, piuttosto. Questa differenza, in alcuni casi vera, viene dall’origine, copia da co-opes; abondanza da ab-unde.
La gran quantità di liquidi può essere molesta e nociva. E così si dimostra ancora perché copia abbia sempre buon senso, dove abondanza può dirsi anco d’errore o di male; perché l’opes latino non aveva mal senso.
L’abondanza è più relativa; è più assoluta la copia.
Anche il poco è abondanza a chi ha pochi bisogni; ma questa abondanza non si potrebbe dir copia. Un villico nuota nell’abondanza, possedendo tanta quantità di cose, con quante sarebbe poverissimo un magistrato.
Ma quand’io dico copia, astraggo (per quanto da idee di quantità è possibile astrarre) dal maggiore o minore bisogno, e intendo indicare notabile quantità."

Niccolò Tommaseo, Nuovo dizionario dei sinonimi della lingua italiana, quarta edizione milanese accresciuta e riordinata dall’autore, Milano, per Giuseppe Reyna, Librajo-Editore, M.DCCC.LVIII
Voce 69 – Abondanza, Copia, pag. 12


Dispensario delle parole estinte: Ardenza, Arsione

“Nel traslato, ardore, vale la continua od almen prolungata intensità dell’affetto: ardenza, l’intensità momentanea. Nell’ardenza dell’ira, anco l’uomo più mite può lasciarsi andare ad eccessi; l’ardor dell’amore trasporta ad atti sconvenienti anco i più saggi.

Più: ardore è anco di sentimenti nobili e puri (2); l’ardenza è un momento che ha del pericoloso, per lo meno, e del soverchiamente vivace.
L’ardor dell’amor puro messo al cimento, si trova talvolta in certo stato d’ardenza che non è tutto platonico: egli è perciò che conviene evitar l’occasione.
L’arsione è nella gola; viene da sete difficile a vincersi o dal calor della febbre: l’arsura è ne’ campi; vien dalla calda stagione.”

Niccolò Tommaseo, Nuovo dizionario dei sinonimi della lingua italiana, quarta edizione milanese accresciuta e riordinata dall’autore, Milano per Giuseppe Reyna, Librajo-Editore, M.DCCC.LVIII
http://books.google.com
Voce 44- Ardore, Ardenza, Arsione, Arsura, pag. 8
(2) BUONARROTI: Questo possente mio nobile ardore Mi solleva da terra.


domenica 6 dicembre 2009

8 anni

Il giorno dopo il mio ottavo compleanno mio padre mi disse parole gesticolanti e frettolose che subito svanivano, vinte dalla soggezione e da un amore timido.
Mi parlava attraverso l’allegria giocosa di chi ti aspetta dall’altra parte, perché lui dall’altra parte c’era già.
Poi si dileguava come il vento, lasciandomi nel naso l’odore di ferro e di plastica con cui alimentava macchine giganti, dinosauri alla catena che sbattevano i denti in un fragore senza tregua, secondo cadenze ritmate dagli schianti e dalle pause con cui riprendevano fiato.
Torceva gli elementi secondo i suoi disegni, in piedi davanti al tecnigrafo a tracciare forme e a tendere inganni, perché la materia fosse finalmente vinta ad un nuovo senso.
Un giovane Plutone che animava il fuoco, incurante del fato.

mercoledì 25 novembre 2009

RESISTANCE – SOUNDPOST - musica per Re- Esistere


Re-Esistere: naturale associazione di senso per recensire questo CD dei Soundpost, musicisti invisibili, forse uno solo che si traveste da gruppo, forse due a far finta di essere uno solo, non si sa.
Sembra che l’etichetta discografica che li produce sia più libera che indipendente, ma anche di questo non c’è certezza assoluta.
Voci dal sottosuolo (sic!) mi hanno raccontato che non si tratta di un mistero a fini commerciali, piuttosto di una posizione a favore della musica, del suo essere fluido, libero. E così ho scaricato il disco da Itunes, su consiglio di un amico, a sua volta consigliato da un passaparola senzaverso, che si sa i passaparola non hanno mai una direzione univoca, a volte tirano dritto e altre tornano sui loro passi, sempre allegri e scarsamente inclini ad una meta. E poi mi sono detta perché non scrivere un post sui Soundpost? Facile a dirsi. Quando leggo le recensioni della critica musicale finisco con il perdermi nel mood, nel sound, e in quelle parole che alla fine, oltre al senso, hanno perso anche il suono e per la musica questa è davvero una tragedia.
Allora ho cercato le assonanze: e Resistance è un disco per scivolare, per cambiare discorso, per respirare, re-esistere, appunto. Se dovessi descriverne il ritmo, direi che è un gerundio, un battito d’ali; se alla musica chiediamo l’impossibile, che ci porti via, lontano per qualche minuto, Resistance ci riesce benissimo.
Sono appena atterrata da questo bellissimo disco volante e vi invito a volare.


RESISTANCE – SOUNDPOST. Música para Re-Existir
Re- Existir: natural asociación de sentido para reseñar este CD de los Soundpost, músicos invisibles, quizás un solista que se disfraza de grupo, quizás dos a simular ser un solista, no se sabe. Parece que la etiqueta discográfica que los produce sea más libre que independiente, pero también de este no hay certeza absoluta.
Voces del subsuelo, (¡sic!) me han contado que no se trata de un misterio a finos comerciales, más bien de una posición a favor de la música, de su ser fluido, libre.
Y así he descargado el disco de Itunes, sobre consejo de un amigo, a su vez aconsejado por un correr de la palabra sinformanirumbo, que se sabe cuando la palabras corren no tienen nunca una dirección unívoca, a veces tiran recto y otras vuelven sobre sus pasos, siempre alegres y poco predispuestos a una meta.
¿Y luego me he dicho por qué no escribir un post sobre los Soundpost?
Fácil a decirse. Cuando leo las reseñas de la crítica musical acabo de con el perderme en el mood, en el sound, y en aquellas palabras que al final, además del sentido, también han perdido el sonido y por la música ésta es de veras una tragedia.
Entonces he buscado las asonancias: y Resistance es un disco para resbalar, para cambiar de tema, para respirar, re-existir, claro. Si tuviera que describir de ello el ritmo, diría que es un gerundio, un latido de alas; si a la música preguntamos lo imposible, que nos llevas fuera, lejano por algún minuto, Resistance lo consigue muy bien. Apenas he tomado tierra por este platillo volante y os invito a volar.

martedì 24 novembre 2009

Consiglio di classe

Consiglio di classe Istituto Omissis-
Classe I media sez. omissis
Roma 18 novembre 2009
Oggetto: riunione Consiglio di classe del 13 novembre 2009
Gentilissimi Genitori
All’esito del consiglio si informano i genitori, in particolare degli alunni maschi, che il corpo insegnante si è lamentato del comportamento poco disciplinato dei menzionati alunni durante lo svolgimento delle lezioni.
Pertanto si invitano i sig.ri genitori a sensibilizzare i propri figli al fine di consentire il migliore svolgimento delle lezioni senza interruzioni, nell’interesse dell’intera classe.
Certo della vs. cortese collaborazione, colgo occasione per porgere i miei più cordiali saluti.
Il rappresentante di classe
Sig. Omissis


Amore mio volevo dirti che devi avere pazienza, hanno perso la testa. Evidentemente stufa di essere riempita di pensieri morti è scappata su una petroliera, nessuno ne sa più niente e sono mesi che non scrive.

Adesso provo a sensibilizzarti.

Come coreuti (1) le tue professoresse hanno annunciato la tragedia, strappandosi le vesti davanti a giovani buoi scappati dalla stalla, loro così attente, democratiche, partecipative, assertive, educate, sicuramente laureate, messe lì a fare guardia, a programmare, a pianificare gli obiettivi formativi, ad individuare i criteri di valutazione, a selezionare gli indicatori di monitoraggio, a pesare i debiti, a confrontare i crediti, a misurare l’efficienza e soprattutto l’efficacia del processo formativo, e anche di quello didattico educativo, con particolare riferimento al profilo di socializzazione senza dimenticare quello, ancorché forse un po’ meno prioritario, dell’apprendimento e, se proprio butta male, a far volare i sette in condotta che con le buone o con le cattive qui si deve capire la funzione della scuola, la responsabilità educativa, l’autorità formativa, il compito di educare, di integrare, di socializzare, di condividere e di redimere qualunque fantasia, qualunque accenno di libertà, fosse anche solo il gesto distratto di mettere un piede fuori dal recinto.

Ti stai sensibilizzando almeno un po’? Dai proviamo.

Non capisci che lo stipendio arranca, la precarietà è nel ruolo ma anche senza ruolo, avendo questa ormai a tradimento acquisito il dono dell’ubiquità, i tagli alla scuola pubblica si annunciano fin dal mattino con le bidelle (si dice personale ATA, ata come ata, come bidelle) che sciabattono (2)  lungo i corridoi, l’intonaco cade a pezzi, speriamo che non piova, e non vedi le tue insegnanti svolazzare in sala professori, catturate dall’affanno di non sapere come maneggiare questi ragazzini (soprattutto i maschi), verso i quali, per sortilegio, non provano più nulla?
Deserto, isolamento, estraneità, come te lo devo spiegare? Han perso tenerezza, sensibilità, emotività, capacità di riconoscere, e sperano che l’integrazione, ma anche la partecipazione, benché quest’ultima sia stata sempre più pigra per natura, le liberi dal trascorrere del tempo, che otto ore sono in sé troppo durature quando l’amicizia è parola scandalosa.

Bene, poiché credo che almeno un po’ tu ti stia sensibilizzando, ti racconto come è andata.

Ad un certo punto stanche del chiasso, di quella tramontana che come figli del vento trascinate ogni giorno in classe per far cambiare l’aria, e non sapendo come scappare dalla gabbia hanno convocato un bel Consiglio(3) di classe, luogo della democrazia partecipata, della crescita dal basso, delle decisioni condivise, dell’integrazione, della partecipazione, della socializzazione, dell’avvicinamento dei punti di vista, e per dirla tutta, spazio per fare chiarezza, per sgombrare il campo, mettere al centro i problemi, individuare il colpevole, votare democraticamente all’unanimità il passaggio di palla e, con un certo sollievo, scaricare il barile.
In quel clima di rarefatto galateo che rende agevole il girare intorno ai discorsi particolarmente attenti, prudenti, al limite insinuanti, muovendosi guardinghe sempre dentro la misura, nei margini, fra le due righe, hanno lasciato che la verità passasse sotto traccia, clandestina alla possibilità delle parole che in quei territori si formulano nella neutralità, nell’equilibrio, nell’equidistanza.
Al Consiglio ha partecipato (e come poteva mancare) un rappresentante dei genitori, elemento democratico partecipativo condiviso messo lì a dare voce a tutte le sacre famiglie, che come dovresti sapere vanno integrate nella scuola e la scuola, anche lei, va integrata nella famiglia, elemento successivamente indotto a firmare, per spirito di servizio, l’informativa finalizzata alla tua sensibilizzazione con cui ha accettato, a testa china, anche la malcelata reprimenda verso le sacre famiglie, abbastanza disintegrate in tutto il resto.

Certo sarebbe stato un finale sorprendente se avessimo potuto beccare la verità in flagrante: se per rassegnazione, o per arrendevolezza si fossero tutti lasciati andare ai sentimenti, anche quelli più confusi, disordinati, quelli che alla fine ti ritrovi ubriaco e un po’ felice.
Se avessero detto, Bene signori siamo stanche, sarà colpa degli ormoni, del cambiamento climatico, del riscaldamento globale, ma davvero i vostri figli sono insopportabili: è vero sono solo 12, hanno solo 11 anni, sembrano piccoli, sembrano innocenti, sotto quei capelli arruffati, gli occhi pieni di sonno la mattina e ancora nessun falso rimpianto con cui fare i conti, ma sono così refrattari all’ordine, alla regola, la testa piena di fantasie, forse troppa bellezza, tutta quella meraviglia che hanno di riserva, che davvero non sai come togliergli il vizio e finalmente infilarli nel programma e se non nel programma, quanto meno nell’obiettivo formativo, e dico se non nell’obiettivo almeno in uno straccio, dico uno straccio di competenza di base.
Ma forse noi davvero non sappiamo più. Non sappiamo da dove ci arrivi tutta questa stanchezza, il senso di inutilità, forse è colpa di questa astrazione, questa gravosa immaterialità che ha reso il nostro esistere così estraneo, separato, e in quest’autunno troppo urbano perché ci si possa davvero accorgere delle ragioni delle foglie, vorremmo chiedervi se per favore potete scongiurare i vostri figli di fare meno casino.
Potete?


Note
(1) Amore, coreuta è uno dei 12 o 15 elementi del coro della tragedia greca, non è una parola brutta. Il capo dei coreuti si chiama corifeo, ma puoi fare a meno di ricordartene.
(2) Sciabattare, condursi nell’esistenza in ciabatte fuori dall’orario e dal luogo domestico, che immancabilmente produce uno sciabattio, rumore analogo a sciattume in movimento.
(3) Senti come finisce in iglio Consiglio, suono che non promette niente di buono a meno che non spunti dal cappello di un mago.

lunedì 23 novembre 2009

Alla bandiera rossa

Per chi conosce solo il tuo colore,
bandiera rossa,
tu devi realmente esistere, perché lui
esista:
chi era coperto di croste è coperto di
piaghe,
il bracciante diventa mendicante,
il napoletano calabrese, il calabrese
africano,
l'analfabeta una bufala o un cane.
Chi conosceva appena il tuo colore,
bandiera rossa,
sta per non conoscerti più, neanche coi
sensi:
tu che già vanti glorie borghesi e
operaie
ridiventa straccio, e il più povero
ti sventoli.
Pierpaolo Pasolini, Nuovi epigrammi (1958-59)

Por quien conoce sólo tu color,
bandera roja,
tú tienes que realmente existir,para que él exista:
quien estuvo cubierto de costras està cubierto de llagas,
el jornalero se converte en mendico,
el napoletano calabrese, el calabrese africano,
el analfabeta una búfala o un perro.
Quien apenas conocía tu color,
bandera roja,
está a punto de no conocerte màs, tampoco con los sentidos:
tú que ya te enalteces de glorias burguesas y obreras
vuelve a ser trapo, y lo más pobre
te flamee.

Traduzione non ufficiale di Mt@

martedì 17 novembre 2009

Proust e il portinaio

La vita si è infilata nei dettagli.
Questo è avvenuto a partire da Proust che solo per altri versi dovremmo ringraziare.
Quali versi? Quegli altri, ovviamente. Per farti capire: stavo scrivendo della vita che si infila, questo pensiero mi è venuto in macchina, prima, solo poco fa, dopo che avevo visto il portinaio, non so forse si dice portiere, e mi è venuto un gran disagio. Io ogni volta che lo vedo mi viene su una sorta di irritazione, vedi ho detto mi viene su, non ho detto provo o sento, forse è solo un errore di stile, ma intanto, a proposito di stile, subito dopo la parola disagio, ho dovuto sottrarmi ai suggerimenti informatici, che sono dettagli a loro modo dispendiosi, mollando una sberla all’antivirus che ad ogni piè sospinto, senti come suona bene sospinto, be’ dicevo ad ogni piè sospinto mi avverte di un attacco esterno, e poi ho dovuto zittire, letteralmente certo no, ma è come se, zittire dicevo il correttore ortografico e di stile, decliccando 20 flag messi a guardia, come una falange spartana sul dirupo delle Termopili, delle espressioni da evitare, delle frasi lunghe, della mancanza di leggibilità, delle forme della lingua parlata, delle parole brutte, di quelle ridondanti, dei paroloni, si c’è un flag anche per segnalare i paroloni, non mi chiedere come fa a distinguerli, forse se finisce in one allora il programma capisce che è un parolone, e per finire dell’uso errato, genericamente errato si intende, e del dialetto. Appena ho cominciato a scriverti dell’infilarsi nei dettagli e di Proust, che non era male come collegamento, almeno nelle intenzioni, per cadere un attimo sul portiere e sul disagio correlato, eccomi costretta a difendermi dall’applicativo di videoscrittura che allegramente se ne frega di Proust.
Poi uno dice che è disorientato.
Ti stavo dicendo del portiere o del portinaio, è una questione di suoni, scrivere è quasi sempre una questione di suoni, si fa musica nonostante tutto, per cui fra iere e naio cambia la melodia. Ci sono parole fredde, portiere è una di queste, parola da cui si è cavato il giudizio e anche il sentimento, se l’è mangiato come una pedina a dama, o se vuoi ha negato tutti gli altri sensi, soprattutto quelli volgari fatti dal popolo in secoli di tentativi, messi al mondo sulla schiena del portinaio. E’ la stessa differenza che c’è tra verduriere e verduraio, il linguaggio contemporaneo ha privilegiato la professione, ha demolito il mestiere che era un modo di non trascurare l’esistenza che ci stava sotto, e che anche ad uno sguardo poco attento si intravedeva nel modo di mettere le mani dietro la schiena ad aspettare al varco la giornata che non passa, mentre passano tutti gli altri, gli inquilini e i condomini, le stagioni appena fuori dal portone, e l’odore di cipolla fritta che impunito si infila in ascensore insieme al profumo della signora Rossi del secondo piano che sicuramente fa le corna al marito. Il mondo è molto più divertente se lo vedi dal punto di vista del portinaio, una rivelazione a cui mi sono aggrappata stamattina guardando il creato come un pipistrello scampato alla sventura della troppa luce.
Scrivo come una pazza eh?
Si, ma è Proust che ha iniziato se ti basta come attenuante presuntuosa, e ne siamo stati così sconvolti da mettere nei nostri programmi informatici tutti i sostegni e gli appigli per evitare lui e tutta l’insostenibile certezza dell’impossibilità, da quel momento in poi, di raccontare alcunché. Da quando Quello, si QuelloQuello, ha detto che Dio è morto, come un fiume in piena si è portato via anche le storie, quelle con un inizio e una fine, stelle raggruppate da linee immaginarie a fare forme compiute, il carro e le pleiadi, che se ti sbagli l’universo diventa illeggibile, come d’altronde è nelle attese se si vuole dare senso alla morte dell’Altissimo. Si anche Joyce, anche Joyce. Guarda potrebbe essere Joyce ad essersi adeguato per primo a Quello, non ha molta importanza individuare il primato della causa visto la brutta fine che ha fatto la Metafisica cercando di scappare alle inevitabili conseguenze preannunciate da Quello.
La questione, se mai, sta tutta in quel Da quel momento in poi.
Un conto è dire nel 1812 il giorno 19 di febbraio, un altro è affidarsi, costretti ovviamente, all’indeterminatezza di un gerundio, di un perdurare che ha avuto inizio in un momento qualunque. Se ci pensi bene ha la stessa portata del meteorite che è caduto sulla terra nel Giurassico (trovo che giurassico sia una parola magnifica) con la mutazione della specie in Sapiens Sapiens Indeterminātus in cui è la prospettiva vaga, vaga quanto basta, ad accogliere i destini dei sopravvissuti al disastro.
Per questo non ci capiamo più nulla, e questo va detto con l’orgoglio dei malcapitati a cui non rimane altro che una profezia come peccato originale.

mercoledì 11 novembre 2009

Vogliamo sapere la verità sulla morte di Stefano Cucchi


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La foto è si MP5 - Scarceranda, http://www.flickr.com/photos/7345946@N06/3947578963


mercoledì 4 novembre 2009

SPUNK

“E pensare” rispose Pippi con aria sognante , “pensare che sono stata proprio io a inventarla, io e nessun altro!
“Che cosa hai inventato?” s’informarono Tommy ed Annika […]
“Una parola nuova” rispose Pippi e guardò Tommy ed Annika come se li vedesse soltanto allora. “Una parola davvero nuova di zecca.”
“Che parola?” chiese Tommy.
“Una parola sensazionale” disse Pippi “una delle migliori che abbia mai udito.” “Diccela!” propose Annika.
“Spunk!” disse Pippi trionfante.
“Spunk?” ripeté Tommy. “Che cosa significa?”
“se soltanto lo sapessi!” esclamò Pippi. “di una cosa sono certa: che non significa aspirapolvere.” […] Annika disse: “Ma se non conosci il significato è una parola che non ti serve!”.
“E’ proprio questo che mi tormenta” esclamò Pippi […] “pensa un po’ che parole ti vanno ad inventare! ‘Tinozza’, ‘tassello’, ‘fune’ e suoni del genere, che nessuno riesce a capire dove sono andati a pescarli: ma spunk […] tutti se ne infischiano di andare ad inventarla. Per fortuna mi ci sono imbattuta io! E intendo andare fino in fondo alla ricerca del suo significato!”

Astrid Lindgren, Pippi Calzelunghe

Foto: archivio di Sergio Tedeschi - http://www.flickr.com/photos/sergiotedeschi/

venerdì 30 ottobre 2009

Stefano Cucchi


A proposito di Stefano Cucchi, storia che mi indigna a tal punto da volermene andare da questo paese.
Passi tutto ma quello che è successo a Stefano Cucchi, se confermato, è troppo.
Ho un figlio di 20 anni, per me bello come il sole, frequenta l'università, ha amici, spesso cambia o è cambiato dalle sue ragazze, insomma tutto come deve andare.
Tre settimane fa o giù di lì al casello di Livorno, all'imbocco della statale Livorno-Grosseto, viene fermato dalla Guardia di Finanza (o erano
Poliziotti, o erano Carabinieri, per me pari sono, uomini e donne che dovrebbero incarnare il senso dello Stato, della Comunità, nel rispetto delle regole di prevenzione dei reati e della sicurezza e tutto questo con intelligenza e senso della misura, che non sempre si vede).
Era in macchina con un suo coetaneo, un compagno di Università.
I Signori delle Forze dell'Ordine come per brevità li chiameremo, li hanno fermati, li hanno controllati e non hanno trovato nulla di quello che sempre vanno cercando.
Siccome i Signori delle Forze dell'Ordine (tutto maiuscolo come sull'attenti) non hanno trovato niente e gli mancava quel quid di soddisfazione che invero sembra necessaria quando si può finalmente esercitare quel piccolo potere(con i deboli)che fa sentire vivo chi incarna il potere dal punto di vista della mediocrità,li hanno condotti dentro il casello, dove sempre gli stessi Signori delle Preparatissime Forze dell'Ordine hanno a disposizione una stanza.
Lì nonostante le timide proteste, e senza neanche spiegare in termini di legge i principi che permettevano l'adozione di una tale (secondo me quanto meno irrituale) procedura, né tanto meno declinare i diritti dei ragazzi perché evidentemente Lor Signori sono calati culturalmente nella presunzione assoluta che quando un individuo incappa in un Signore delle Forze dell'Ordine alla caccia di reato, i diritti sono di fatto sospesi, lì, dicevo prima di perdermi nuovamente in una rabbia che non trattengo, i ragazzi hanno dovuto spogliarsi integralmente e sottoporsi all'umiliazione di piegamenti sulle ginocchia per individuare potenziale droga nascosta nell'orifizio anale, droga che ovviamente non c'era.
Quando mio figlio mi ha raccontato l'accaduto, io avrei denunciato questi Rappresentanti delle Pur Sempre Forze dell'Ordine, se mio figlio e il suo amico avessero avuto l'accortezza di prendere il numero di targa e di chiedere (come è nei loro diritti) le generalità di questi Membri che avranno pure un nome, dico io, a parte l'alienazione in abbondanza.
Ma si sa che i ragazzi sono innocenti e non sanno dare un nome agli abusi.
Poi sappiamo tutti che alcuni altri Signori delle Forze dell'Ordine Integerrimi e Ligissimi al Dovere, Pregni del senso della Patria e ancora Presunti Innocenti, tutto maiuscolo per carità, sono accusati di aver ricattato Piero Marrazzo addirittura (così sembra) attraverso l'introduzione di cocaina nell'abitazione della signora con cui il Presidente Marrazzo si intratteneva.
Adesso è difficile non sospettare che a Stefano Cucchi qualcosa di grave sia davvero successo e in cui le Sempre Tutelanti Forze dell'Ordine devono avere avuto un ruolo, non nell'aver procurato le lesioni a Stefano, non oso pensarlo e questo non possiamo dirlo, ma quanto meno nel non aver prestato adeguato soccorso e avvertito la famiglia di ciò che stava succedendo.
Mi chiedo: ma se un ragazzo viene colto in flagranza di reato nell'uso personale o nello spaccio di droga, perde i diritti alle cure tempestive e adeguate al suo caso?
La presunzione di colpevolezza (perché di questo si è trattato) può imporre che le Forze dell'Ordine possano non avvertire la famiglia e consentire UMANAMENTE PARLANDO una visita, visto che il ragazzo stava malissimo e con due vertebre rotte?
Quale gravissimo reato aveva compiuto Stefano Cucchi per cui i genitori (a cui rivolgo tutta la solidarietà di cui sono capace, come madre e come cittadino di questo paese ingiusto e poco intelligente almeno quando si esprime in pubblico)non hanno avuto la possibilità di AVERE NOTIZIE VERE riguardo la sua salute, SUBENDO IL CONTINUO VESSATORIO RIMPALLO BUROCRATICO IN CUI MANCAVA SEMPRE QUALCOSA ALL'APPELLO, L'AUTORIZZAZIONE DEL GIUDICE, LA CONTROFIRMA IN CALCE, LA MARCA DA BOLLO, mentre un nostro ragazzo moriva, uno dei nostri figli più belli.
Mi chiedo ancora se mio figlio si fosse ribellato e lo avessero condotto in carcere e se lì gli fosse successo l'evento senza colpevole di due vertebre rotte, avrei attraversato lo stesso incubo?
Mi sarebbe stato restituito mio figlio cadavere perché gli Integerrimi di cui sopra e loro affini sempre Onoratissimi non sanno vigilare quando è il caso?
Ma in quale paese stiamo vivendo?
Adesso le Forze dell'Ordine sono in piazza per reclamare giustamente per le poche risorse assegnate e (aggiungo) per un giusto stipendio che ritengo sacrosanto. Per inciso le Forze dell'Ordine reclamano contro le ronde che rappresentano simbolicamente la perdita di senso che caratterizza la nostra Nazione da tempo.
Ma forse meglio le ronde, almeno non c'è l'ipocrisia del Senso dello Stato, del Senso del Dovere, dei Diritti e di tutto quel bla bla scandaloso che fa da paravento alla scarsa intelligenza, alla mancanza di misura e di umanità.
Meglio qualcuno che ti ferma al grido di Cassola!! e poi non sai che cosa ti può succedere se quello che ti ferma sta giocando al "Repubblichini! A volte ritornano!", piuttosto che essere fermato da chi dovrebbe tutelare i nostri ragazzi e li trascina, travestito dalla Legge, nell'orrore.
I Signori delle Forze dell'Ordine non dovrebbero dimenticare che nell'esercizio del loro dovere devono TUTELARE i nostri ragazzi che per inciso sono loro concittadini, e potrebbero essere i loro figli.
Inoltre come madre mi è difficile spiegare a mio figlio che deve rispettare le nostre Amate Forze dell'Ordine, diffondendo speranza e fiducia più che un falso rispetto che fra l'altro non mi appartiene per formazione culturale.
Mi è difficile comprovare che siamo in un Paese dove la Legge non è un corpo astratto, un mostro che ti divora se non sei Qualcuno o figlio di Qualcuno che conta. Mi è difficile amare il mio paese e infondere lo stesso amore in mio figlio in modo che si realizzi un discorso di continuità e di prospettiva.
Come risolvere questa contraddizione: bombardiamo questi ragazzi di Bella Educazione Civica, gli chiediamo di partecipare alla vita politica, li condanniamo se fanno i bulli e poi, gli adulti che dovrebbero educare con serietà, con amore, senza mai perdere il senso dello scopo, che non è quello di reprimere brutalmente (quello è lo scopo di un cretino, anche se impersonificato da un Alto Grado delle Forze dell'Ordine, dispiace dirlo)quanto quello di essere giusti e seri, sono i primi a comportarsi da bulli ad un casello?


Foto: window_piece_02.jpg  - Album di Josh Staiger - www.flickr.com
DeepLink: Come si uccide un paese di Giancarlo De Cataldo - pubblicato su l'Unità il 3 novembre 2009

martedì 13 ottobre 2009

La mia macchinetta del caffè


La mia macchinetta del caffè gorgoglia di collera ogni mattina.
Brontola e ribolle di rabbia perché la metto sul fuoco più alto a che si sbrighi e non perda tempo, e a questa novità non si è mai abituata. La sento mentre gonfia l’acqua trattenendo il fiato e, con un ultimo soffio spazientito, spinge il vapore di orgoglio, lasciandosi andare all’ira di bolle e sospiri, di sbuffi e schizzi impazziti, fischiando furiosa finché non la libero dalle fiamme.
Così lentamente si placa, ritirando la marea di zampilli in soffi leggeri e imbronciati, quasi a reprimere il pianto.




Mi aparato del café gorgotea de cólera cada mañana. Gruñe y rehierve de rabia porque la pongo sobre el fuego más alto a que se apresura y no gaste tiempo, y a esta novedad no se ha acostumbrado nunca. La siento mientras hincha el agua reteniendo el aliento y, con un último soplo impacientado, empuja el vapor de orgullo, dejándose ir al cólera de burbujas y a suspiros, de bullones y bosquejos enloquecidos, silbando furiosa hasta que no la libero de las llamas. Tan lentamente se calma, retirando la marea de chorros en soplos ligeros y enfadados, casi a reprimir el llanto.




Foto: 3° almost ready - Album di Vali - www.flickr.com

lunedì 12 ottobre 2009

Pillole contro la memoria corta (1)

« Che cosa avete voluto? La parità dei diritti. Avete cominciato a scimmiottare l'uomo. Voi portavate la veste, perché avete voluto mettere i pantaloni? Avete cominciato con il dire "Abbiamo parità di diritto, perché io alle 9 di sera debbo stare a casa, mentre mio marito il mio fidanzato mio cugino mio fratello mio nonno mio bisnonno vanno in giro? Vi siete messe voi in questa situazione. Ognuno raccoglie i frutti che ha seminato. Se questa ragazza si fosse stata a casa, se l'avessero tenuta presso il caminetto, non si sarebbe verificato niente. »




DORDI Loredana, citazione tratta da Processo per stupro - Arringa dell’avvocato Angelo Palmieri difensore degli imputati accusati di stupro ai danni di una giovane di 18 anni, Tribunale di Latina, 1976.
Processo per stupro, Videocassetta VHS, s.l., s.n., 1979, IT\ICCU\LO1\0822812 di Loredana Dordi

giovedì 8 ottobre 2009

FUORI TEMA - VOTO 11 A 6

Signor Presidente del Consiglio,
sbaglia bersaglio.
Io fossi in Lei farei saltare immediatamente la testa del Ministro Alfano. E’ indubbio che abbia lavorato male.
Come un professore di Italiano davanti ad un tema di 5° liceo l’Alta Corte a suo tempo ha respinto il lodo Schifani perché era talmente zeppo di errori di sintassi giuridica da non conseguire il passaggio all’esame di merito. O meglio, se anche tale esame c’è stato, credo che l’Alta Corte, letteralmente sfinita dal travaglio, abbia ritenuto opportuno non infierire con il giudizio sul profilo di incoerenza costituzionale.
E oggi con il lodo Alfano siamo certi: non solo il componimento era grammaticamente scorretto, ma anche fuori tema.
Non so come abbia fatto Lei con i suoi figli, ma io con i miei mi comporto in questo modo: passi l’errore di grammatica, ancorché grave come un congiuntivo (e il Lodo Schifani era irricevibile da questo punto di vista), ma il fuori tema no. Il fuori tema è conseguenza dell’incuria, della pigrizia, della mancanza di giudizio. Inaccettabile.
Ecco perché al suo posto, recuperata la calma, farei saltare la testa al Ministro Alfano. Una punizione qui va data, secca, senza tergiversare, come un buon padre di famiglia.
Dispiace che nell’errore sia caduto anche il nostro Presidente della Repubblica: passi per Lei purtroppo vittima dei consigli distratti di avvocati ormai troppo pasciuti per potersi impegnare ancora con rigore, ma per gli esperti costituzionalisti del Quirinale, davvero non c’è appello.
Bene che fare ora?
Intanto come le ha consigliato il Presidente Cossiga (chiamato ai Suoi tempi benevolmente il Picconatore) si disponga al silenzio.
Il fatto che, Carta alla mano, e scomodati gli artt. 1, 24 e 138 della Costituzione, solo 11 giudici su 6 abbiano ribadito con più certezza di prima (ma non con certezza assoluta) che tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge, lascia aperto uno spiraglio sull’esito del prossimo esame.
Certo si tratterà di andare in Parlamento, di attivare la procedura di revisione costituzionale che certamente è fastidiosa implicando numerosi passaggi e le solite perdite di tempo che, e qui sono d’accordo con Lei, possono francamente irritare. Tuttavia, e questo è il punto, se Lei avesse avuto un Ministro della giustizia più competente, questa sonora bocciatura non ci sarebbe stata. Bocciatura che ripeto vale anche per il Presidente della Repubblica che ha firmato senza leggere, evidentemente terrorizzato dal litigio istituzionale e auspicando che la Corte, per una volta, chiudesse un occhio. Ma si sa che la Corte è puntigliosa e mentre esaminava il testo si è accorta, proprio come fa un professore di italiano, che il tema del ben noto studentello pigro, seppur ripulito dagli errori grossolani, era tragicamente sempre lo stesso.
Ancora questo! Avrà detto la Corte fra sé e sé.

mercoledì 7 ottobre 2009

Delirio di tutt_



Foto: giancolombopierpaolopasoliniballaconannamagnanimostrake9.jpg


13 febbraio 2007
Ho un problema che non dovrei sottoporvi adesso considerato il numero dei fronti aperti alla battaglia.
Tuttavia (il tuttavia è invero salottiero, infatti è la Arendt che ne fa un uso smodato) non posso esimermi dal criticare l’abitudine in cui il mondo è caduto (meglio scivolato) di considerare linguisticamente la differenza di genere come principio guida della buona comunicazione sociale.
Nell’illustrarvi lo stato di disagio in cui verso ogni volta io senta, legga o financo presagisca la tragedia del tentativo di comprendere il tutto sociale nel raddoppiarsi del genere (che sempre sociale è, in quanto categoria, classe e conseguente classificazione), cercherò di essere il più chiara possibile acciocché, se mai, non si debba più tornare sull’argomento. Si rende evidente, anche nel senso dell’imprudenza che a volte accompagna il rendersi palese di qualcosa, il ricorso continuo, formale e manierista, in ogni parola sospinta fuori a calci a far parte del mondo, (mentre lei, dico la parola, se ne stava al caldo, sotto le coperte della scarsità di pensiero non avvertendo alcuna evidente necessità di essere testimonianza di alcunché), alla differenza di genere nella comunicazione sociale.
E’ un continuo, nel senso di sistematico, continuativo, progressivo, ripetitivo, incessante, insistente e ormai reso stabile dall’abitudine, affacciarsi del “cari qui e care lì”, “care bambine e cari bambini”, “Gentili ministri e Gentili ministre”, con il conseguente occorrere (nel senso di incespicare, incappare, cadere) di storture grammaticali le cui prime vittime sono gli aggettivi i quali, in alcuni casi, si pluralizzano al maschile e che, almeno per coerenza formale, dovrebbero essere “rigenerati” rispetto al sostantivo di genere a cui si accompagnano.
Da ciò consegue, stortura dopo stortura, bruttezza per bruttezza, nella fisiologica proiezione geometrica in cui solitamente si moltiplica il brutto rispetto al bello che è fenomeno raro e irriproducibile, la necessità, per seguire la tendenza di essere giusti fino in fondo, di non marginalizzare il genere femminile negli aggettivi, e fatto trenta che si faccia trentuno.
Pertanto, sul “Cari tutti e care tutte” il problema non sussiste per grazia ricevuta, mentre per le gentili ministre, per esempio, il problema c’è e per risolverlo degnamente, urge cambiare gentili Ministre in "gentile" Ministre e pazienza se l’aggettivo rigenerato (ultima moda dopo quella del riciclo) si ritrova al singolare, almeno che si salvi la coerenza!
In ogni manifesto, in ciascun discorso, nei dispositivi di legge e loro affini, in qualunque lettera, messaggio, sms, informazione, comunicato, volantino, post-it, bigliettino e ancorché nei pizzini, e in qualunque mezzo cartaceo o virtuale adatto a contenere parole e rivolto a soggetti il cui numero sia maggiore di 1, ovvero il Sociale (con la S maiuscola ad intendere una struttura concettuale significante qualunque individuo umano maggiore di 1 raggruppato in una forma vicina o distante e anche in assenza di forma stabile purché diversa dall’individuale, e trasversalmente e alternativamente al complesso delle caratteristiche ammesse quali la cittadinanza, il genere, la religione, la lingua, il credo politico, e, soprattutto, a prescindere da ogni altra caratteristica soggettiva quale, ma solo a titolo esemplificativo, l’abitudine o meno a fare colazione) e così pure relativamente al contenuto dei soprannominati mezzi e pertanto nell’annuncio, nell’appello, nella preghiera, nell’intimazione e, ancorché raramente, nell’insulto, si ricorre alla differenza di genere definita sulla base dell’apparato sessuale che, come noto, articola il genere umano in due classi distinte e la cui complementarietà e differenza è utile solo a fini riproduttivi.
In buona sostanza il disagio mi sovviene dalla debole comprensione del nesso logico sotteso alla relazione tra apparato sessuale e organizzazione sociale e la presunta necessità, nel rivolgersi al sociale (secondo le declinazioni di cui al precedente e straripante paragrafo), di tenere conto della differenza dell'apparato medesimo che invero nulla racconta dell’identità sociale, concetto recente e per alcuni versi ancora poco studiato, in cui di volta in volta ricadono le trasversalità o le non differenze, gli aspetti comuni che rendono un individuo parte del Sociale, raggruppate da un interesse o da una finalità comune (per esempio la comunanza di essere lavoratore e di raggrupparsi insieme ad altri lavoratori a prescindere dalle altre “non differenze” o aspetti comuni ammessi al Sociale medesimo quali, per esempio, la religione o il tipo di spazzolino).
Se il Sociale nell’affermazione di sé (un sociale con forti connotazioni egoiche diremmo definendo, nostro malgrado, un paradosso) si dichiara nel “siamo tutti lavoratori”, il fatto che nella categoria “lavoratori” aggregata nello specificativo “tutti” ci siano due classi di apparato sessuale conta come il fatto che quello stesso gruppo sia formato da fascisti e da comunisti, da mussulmani o da cattolici, da chi usa il bidè e da chi, per tradizione ne può anche fare a meno.
In sintesi la domanda è: che c’entrano gli apparati sessuali delle lavoratrici e dei lavoratori con i diritti del lavoro?
E soprattutto cosa c’entra il linguaggio, unica vittima strattonata di qui e di là ad adattarsi alle sempre emergenti urgenze di comprendere le donne (nei discorsi e nelle decisioni e perché il comprendere (riunificare, non separare, assumere, accogliere) sia formalmente esatto, si realizza la disarticolazione della lingua nella sistematica e ossessiva differenziazione che di volta in volta si rende necessaria.
E, aggiungo poi, per gli altri? dico i gay, i trans, le lesbiche, chi ancora non lo sa e ci sta ancora pensando, come faremo a tenerne conto? Se non ne teniamo conto non esisteranno!!! E giù altra ingiustizia, altro che diritti di cittadinanza, qui si creano ben altri problemi come direbbe Stefan Trofimovic in preda ad un'insana agitazione (Dostowiesky Fedor, I Demoni).
Bene, allegramente affrontiamo, per l'intanto, il MondoNuovo (come emigranti in terra straniera) del neologismo di genere, nella scoperta che c’è il giudice e la giudicia, l’ingegnere e l’ingegnera e che di colpo, con un semplice e innocente mutamento di finale, tutta la forma rende giustizia alla mancanza di sostanza, grazie alla parola.
E in principio fu il verbo.
Bene.
Mi sento un po’ meglio.
Mi chiedo, tuttavia, se non si poteva pensare ad una soluzione più semplice, più pratica.
Invece di differenziare il linguaggio nelle due declinazioni, non si poteva neutralizzarlo?
Se una stortura va compiuta, invece di operarla per addizione (aggiungere una “o” oppure una “a” a seconda del genere escludendo comunque altre ampie categorie) non si poteva operare per sottrazione eliminando tutte le finali?
Verrebbe così:
car tutt, car bambin, gentil giudic, eminetissim cittadin,
Terribile è la fatica della forma, tuttavia, tutti, tutte, tuttx, tutty,.... tutt(n) nessuno escluso (perchè un altro mondo è davvero possibile, davvero, davvero) troverebbero il loro posto in un Sociale finalmente perfetto.
Oppure lanciamoci sui verbi che sono ancora un territorio politicamente inesplorato!
Un territorio di nicchia politica è sempre una fortuna!
I verbi, come sono? Come sono i verbi? Ve lo siete mai chiesto? Maschili o femminili?
L’agire dei verbi se ne frega e si fa incarnare dal soggetto, i verbi sono metagender, esseri superiori della sintassi umana.
Perfetto! Impariamo dai verbi e riscrivere i nostri gerghi, il nostro modo di pensare, perché rendere sessuato il Sociale rappresenta una perversione assoluta, come dice la mia amica Susanna (cfr. Rienzi, S., , Raccolta dei discorsi pronunciati nell'ottavo giorno, archivio n° 1/2007).
Infine avrei un'altra disquisizione sul meccanismo Sociale definito paradigma "della tensione fra coesione e finalità del gruppo - due realtà inconciliabili" (Mt@, letteratura a colori, Vol. II, 2007), ben applicabile ai piccoli gruppi dotati di leader umano (e quindi non ancora eteronomizzati).
Eh si, il potere viene dappertutto, come diceva il mio caro amico Foucault, e si sposta per istinti gregarizzanti (aspetto che nei Neanderthal si vedeva benissimo). Quanto era bravo!! Peccato che sia morto!
Ve ne scriverò appena possibile, siatene certi.

I simboli morti


Riporto una bellissima citazione di Lia Cigarini (1): “per alcune (e alcuni) la differenza significa sottolineare che le donne sono differenti dagli uomini (più etiche, meno violente, ecc.) che si differenziano quindi nei contenuti dagli uomini che rimangono per necessità punto di riferimento. Assimilarsi all’emancipazione o differenziarsi dagli uomini è la stessa operazione. Non c’è libera interpretazione di sé. Definisco questa concezione della differenza dell’ ordine delle cose. Altre (e altri) da parte loro, ritengono che la differenza consista nell’inventarsi il femminile attraverso ricerche e pensieri. Definisco questa idea della differenza dell’ ordine del pensiero. Penso invece che la differenza non sia né nell’ordine delle cose né nell’ordine del pensiero. La differenza è semplicemente questo: il senso, il significato che si dà al proprio essere donna, ed è, quindi dell’ordine simbolico”.

Questa definizione offre alla coscienza delle donne e alla perversione del gender (inteso come dispositivo concettuale che racconta della costruzione reiterata della società a partire dalla differenza sessuale e dal dominio sessuato), una splendida via.
Infatti alla facile asserzione che l’ordine simbolico è stato costruito, è un pre-dato, una struttura valoriale consolidata che ha dato origine ad una cultura dominante, si può obiettare che il simbolo ha di per sé una funzione trascendente e che nelle parole di Carl Gustav Jung (2) ha la potenzialità di liberare la prospettiva e il futuro:
“…il simbolo presuppone sempre che l’espressione scelta sia la migliore indicazione o formulazione possibile di un dato di fatto relativamente sconosciuto, ma la cui esistenza è riconosciuta o considerata necessaria. Simbolica è quella spiegazione la quale al di là di ogni immaginabile spiegazione, la considera come espressione di un dato di fatto sino a quel momento sconosciuto, inesplicabile, mistico o trascendente, dunque di un dato di fatto di natura soprattutto psicologica…. Fintanto che un simbolo è vivo è espressione di una cosa che non si può caratterizzare in modo migliore. Il simbolo è vivo solo fino a quando è pregno di significato. Ma quando ha dato alla luce il suo significato, quando cioè è stata trovata quell’espressione che formula la cosa ricercata, attesa o presentita ancor meglio del simbolo in uso fino a quel momento, il simbolo muore vale a dire che esso conserva ancora soltanto un valore storico. .. Che una cosa sia un simbolo o no dipende anzitutto dall’atteggiamento della coscienza che osserva: dall’atteggiamento, ad esempio, di un intelletto, che consideri il fatto dato non solo come tale, ma anche come espressione di fattori sconosciuti. …. Il simbolo vivo non può prodursi nella mente ottusa o primitiva, giacché una mente siffatta si appagherà di un simbolo già esistente come quello offertogli dalla tradizione. Solo l’anelito di una mente altamente evoluta, cui il simbolo offerto non fornisce più la suprema sintesi in un’espressione sola, può generare un simbolo nuovo.”


Fonti
(1) CIGARINI Lia, in Swif, Sito Web Italiano per la filosofia, La questione del genere nell’analisi sociologica, 3 ottobre 2000; per una sintesi biografica su Lia Cigarini vedi http://host.uniroma3.it/dipartimenti/filosofia/Iaph/donne/cigarini.html
(2) JUNG Carl Gustav, Tipi Psicologici (1921), in Opere Vol. 6, edizione diretta da Luigi Aurigemma, Bollati Boringhieri Editore s.r.l., Torino, il testo è tratto dalle Definizioni, pagg. 483-491

La foto è reperibile su http://www.flickr.com/search/?q=burka - archivio di Burning Man 2003

martedì 6 ottobre 2009

Curriculum Vitae: con chi ho studiato

<“Non so voi altri, signori ateniesi, sotto che effetto siate per via dei miei accusatori. So che io – si, io – ancora un poco e smarrivo il senso di me stesso, sotto quell’effetto. Troppo convincenti quei discorsi. Pensare che di vero – e basta dire questo – non hanno raccontato una parola. C’è un punto in quel mucchio di fandonie che m’ha strabiliato, quando vi ripetevano che dovete stare all’erta, a non farvi mettere nel sacco da me: sì, perché sarei un mostro di bravura, con le parole, io. Vedete, neanche un po’ di pudore hanno avuto, del fatto che saranno sbugiardati da me, concretamente, appena si chiarisca che non sono quel mostro di bravura. E questo è il fondo dell’impudenza loro, a mio vedere. A meno che per quella gente << mostro di bravura>> non significhi uno che racconta sempre il vero. Beh, se intendono questo, ammetterei anche io, nel mio piccolo, d’essere bravo parlatore: ma non nel loro stile. Ad ogni modo quella gente, ve l’assicuro io, di vero ha raccontato poco o nulla. Da me, da me ascolterete la nuda verità, ah per Dio, signori ateniesi, non sermoni imbellettati, come i loro, di espressioni e di fraseggi, tutti fregi e figure. Ascolterete ragionamenti in libertà, con le espressioni più correnti: ho la coscienza di raccontare cose rette, io. E nessuno in mezzo a voi s’illuda di sentire altro. No. Non sarebbe bello davvero, signori, presentarmi a voi e, con l’età che ho, sbozzare discorsi come un principiante. Per concludere, signori ateniesi, debbo chiedervi di farmi questa concessione: se sentirete che la mia difesa è nello stesso stile di parole che uso conversando, tutti i giorni, in piazza grande, all’ombra delle bancarelle, dove molti di voi m’hanno ascoltato, e in altri posti, non meravigliatevi di questo, non v’agitate.
Ecco il punto: oggi, io, sono entrato in un’aula di giustizia per la prima volta, e ho settant’anni buoni. Dunque è semplice: mi sento spaesato nel linguaggio in uso qui. Come se, nella realtà, fossi uomo di un altro paese: penso che avreste indulgenza se mi esprimessi nel dialetto, nei giri di frase del mio ambiente nativo. Faccio a voi una preghiera che mi pare onesta: lasciate perdere il modo con cui dico le cose – pessimo, eccelso che sia, non so, - concentratevi su un punto, coscienziosamente, cioè se dico cose rette o no. E’ la qualità di un giudice, questa, non c’è dubbio: di chi parla in pubblico, invece, è dire sempre il vero.”

Fonte: Platone, (a cura di Ezio Savino), Simposio, Apologia di Socrate, Critone, Fedone, 1987, Arnoldo Mondatori Editore s.p.a, Milano – Il frammento è tratto dal capitolo I dell’Apologia di Socrate, pagg. 159-161

Per la cronaca Socrate è nato nel 469 a.c., Platone è suo discepolo; anche io sono sua discepola, con poco profitto certamente.
Quindi quando mi chiedono, Con chi hai studiato? Con Socrate rispondo, Socrate mi ha insegnato a pensare, a stare zitta, a sentirmi stupida, a imbarazzarmi dei miei cattivi pensieri, e a volte, a ritrovarli puri, intatti, belli. Tutto questo a distanza di 2500 anni, ma davvero non abbiamo avuto problemi.
Per questo, se volete, mi permetto di promuoverlo come professore, per il tramite di Platone (Atene, 428 – 347 a. c.), ovviamente, un brano per volta, senza paura, è troppo chiaro, questo è il suo difetto, non ci sono scappatoie né pertugi dove ripararsi, ma, vi assicuro, non fa mai freddo.

Noi e Pasolini


Pasolini eats chocolate - La foto è scaricabile dal sito www.flickr.com - archivio di Dannrayv







(scritto nel 2005 - mese perso nella notte - Risposta ad un articolo di Fulvio Abbate sull'Unità dal titolo "L'eredità dispersa")



Ho 40 anni e come molti inermi della mia generazione, ho vissuto Pasolini attraverso un’intermediazione distorta, operata dalla cultura del nostro tempo che lo ha sempre descritto per sottrazione, filtrando dalla sua vastità e dalla sua grandezza di uomo e di intellettuale, solo quello che poteva ricadere in un accogliente forma di pregiudizio o al più di classificazione, che ne è la forma più ipocrita.
Per amore della verità, i suoi libri più noti (Ragazzi di vita, Una gioventù violenta, ecc..) albergavano in alcuni scaffali della libreria della mia famiglia e le istanze politiche che hanno caratterizzato il suo pensiero, hanno contribuito fortemente alla formazione culturale di mio padre e, per luce riflessa, della mia.
Nonostante mi fosse data la possibilità di un accesso privilegiato, Pasolini veniva accolto nel mio immaginario come cantore della marginalità, di una violenza e ingiustizia senza rimedio e tale connotazione emotiva induceva, all’intimità di adolescente borghese, l’istinto alla fuga. La generazione che ci ha preceduto ha avuto così terrore dei suoi padri, responsabili degli orrori del novecento, da negare ai suoi figli la previsione, la consapevolezza, la capacità di istinto e il timore di una ripetizione che, invero, sembra essere il nostro destino.
Ho incontrato Pasolini soltanto l’estate di due anni fa, davanti al mare, attraverso la grazia di Enrico che gli ha prestato la voce leggendo per me alcuni frammenti tratti dai Dialoghi. Ogni sera al tramonto il libro passava di mano, ci scambiavamo la voce e, davvero, non abbiamo mai smesso.
Ho incontrato il suo lato più intimo, sebbene prestato nella pubblica piazza al responso, come una Sibilla Cumana, uno sciamano a cui la moltitudine accorre per implorare, per adorare o per maledire.
Pasolini mi commuove e davvero non ho altre parole. Suscita in me umanità che è insieme accettazione della miseria e della meraviglia, che mi conduce ad accogliere un uomo venuto a rompere i miei schemi sul nulla, a liberarmi dalla stupidità.
Credo che tutti noi, senza saperlo, si stia attraversando l’esperienza di un lutto profondo, un dolore muto che non ha accesso alla coscienza, non solo perché è morto, non solo perché ce lo hanno strappato, ma perché nessuno ha avuto la forza, il coraggio, la possibilità intellettuale di raccontarci chi era.
Pasolini è morto tante volte nella sua vita, è morto perché diverso, perché inaccettabile dai nemici e non compreso dagli amici. Prima di morire sotto le spranghe, è morto nel chiacchiericcio dei salotti della sinistra, e prima ancora nell’intimità, spesso formale, dei nostri salotti famigliari in cui la diversità si fa sussurro e la tolleranza è spesso un approdo sofferto e, per questo, segno di una presunta superiorità.
E per quanto riguarda la sua eredità, essa sarà negata più che dispersa, fino a quando non avremo il coraggio di dire quanto ci manca, quanto mancherà alle nostre vite, se non sapremo accoglierlo, finalmente, nelle nostre stanze più in ombra, nel mondo di sotto, mondo cui lui, instancabilmente, ha sempre parlato.