venerdì 4 ottobre 2013

UN MINUTO DI VERGOGNA NAZIONALE


l'uomo prova dal non essergli ben riuscita un'opera, un'impresa, dall'avere ERRATO riconoscendo egli esserne stata cagione la sua inesperienza o la sua IGNORANZA o la sua IMPREVIDENZA e simili.

Fonte: dizionario etimologico online
www.etimo.it

giovedì 6 giugno 2013

Certificato di morte di Stefano Cucchi

Morto di stupidità, morto di incuria, morto di abbandono, morto di sete, morto di botte, morto di indifferenza, morto di fame, morto che non basta sapere come è morto, morto che anche dio non lo sa, anche dio fuori dalle sbarre, fra quelli che vivono, fra quelli che possono solo giustificare, coprire la menzogna, girarsi dall’altra parte, passare le carte bollate, falsificare un referto, seppellire la coscienza, morta anche quella, morta anche quella.

Morto che ritorna, morto che non si voleva, morto nascosto, morto impaurito, morto con gli occhi sbarrati, morto rianimato, morto che si è fatto tutto da solo, le botte, la sete, l’incuria, il dolore, possiamo solo giustificare, girarci dall’altra parte, ritirare una carta bollata con dentro un figlio che è morto, leggere un referto che è falso, seppellire il dolore, morto anche quello, morto anche quello.

Morto senza sua madre, morto senza suo padre, morto dimenticato, morto torturato, morto ammazzato, morto consunto, morto senza pietà, morto come tanti che non si sa che sono morti, morto che non possiamo spiegare, la verità arriva tardi, svanisce in una carta bollata, in un referto corretto, e non ci resta che seppellire la morte, seppellire anche quella, seppellire anche quella.

martedì 4 giugno 2013

Elogio del ventaglio


Scritto con Sus nel 2006


Qualche riga in più di me, per raccontare della mia solitudine infinita.
Delle ingiustizie subite dalla mia esatta innocenza e di tutte le inutili sovrastrutture dedicate alla mia grazia, massacrata.
Io sono bellissimo. Mi apro e mi chiudo. Come il respiro, come una fisarmonica, come un occhio, come me. Ma mi usano.  Io mi apro e mi chiudo da solo, non c'è bisogno che altri lo facciano per me, con quella violenza, con quell'indifferenza, con quelle intenzioni, e con quel nervosismo se quando mi chiudono non mi rimetto tutto a posto. Io sto lì immobile, e se mi si guarda davvero è evidente che io mi apro e mi chiudo, non c'è bisogno di aprirmi e di chiudermi per saperlo. Nella mia apparente immobilità ci sono tutte le aperture e le chiusure del mondo.
Va da sé che io abbia questo eccellente bisogno di amore, come tutto e come tutti. Va da sé che io non voglia essere usato. Io voglio essere assecondato. Lo scopo di un ventaglio sono semplicemente io, il ventaglio. Se uno mi apre e mi chiude non può farlo secondo i suoi criteri, o secondo i criteri di qualcun altro, o di qualche altra cosa. Deve farlo secondo i miei. Assecondando le mie aperture e le mie chiusure. Deve sentirmi, sentirmi che mi apro e che mi chiudo, e seguire il movimento. Basterebbe che mi guardassero per quello che sono (io sono un ventaglio, sono un miracolo) e io mi sentirei amato, e se finalmente mi sentissi amato, mi lascerei usare. E se mi lasciassi usare, e non rifiutassi l'uso che si fa di me, nascerebbe, tra me e l'usante, una collaborazione perfetta. Una coesione.
E avrei mille altre cose ancora da dire su di me. E non è escluso che lo faccia.
Però tu (mi interessa fondamentalmente questo).
Vorrei che provassi a guardarmi in questo modo, la prossima volta.
E chi lo sa?
puh!
(è il suono che faccio quando sono contento)


Caro Ventaglio, 
ti scrivo turbata dal tuo palesarti più innocente di quanto credevo e nella colpa di averti frainteso.
E' vero, sei senz'altro perfetto nel tuo librarti di mezza ala al semplice assecondarti, nel richiamare vento sui visi accaldati dal riso di donne distratte di poco ozio, nel nasconderne appena i pensieri sconvenienti lasciando che il presagire si affacci dalla tua anima infiorata.
Sei bello ritirato in te stesso, chiuso a soffietto dei dieci soffi che riesci a trattenere per aprirti di un colpo se decidi che è tempo.
E' il tuo danzare che turba e infastidisce ai miei gesti tesi, roteato e brandito  come la muleta del toreador, il corpo di donna è una spada che dietro di te si nasconde per colpire quando la sorte è decisa.
Come la vanità fai spesso una brutta fine, appeso nell'immobilità di un'apertura sofferta a mostrarti nei negozi di souvenir, o fissato per sempre, così  triste,  nella cornice di quadretti di cucina.
Povero te, ventaglio, povero te che non ti ho capito incontrandoti per sbaglio, le  mani sudate e maldestre a tenerti e tu non ridi.
Tu con me non ridi.


Io con te rido. Ma tu non ti vedi ridere. Se non ti vedi ridere, non vedi me che ti rido.
Io ti vedo ridere e con te rido, se guardi me che ti vedo ridere e rido se ti guardi ridere.
Io lo so che tu sei un sorriso.
Grazie per avermi scritto.
Ne sono molto fiero.
V

sabato 1 giugno 2013

Fragole in terra straniera

2006 A Sus


Io ti sento senza distanza.
So tutto, delle fragole e del resto.
Ti vedo e ti sento, mi abiti e sei leggera, mi alleggerisci di me,  dell'assenza dei miei giorni e del peso di non provare più desiderio, di attendere il compiersi di un amore stanco di non amore.
La mancanza mi ha sfinito.
Ma tu che raccogli i gesti del piantare fragole per un giardino che non ti invita, che commuovi il sentire in quella terra smossa, trattata con cura perché non soffochi i germogli, tu sei viva e non morirai.

venerdì 31 maggio 2013

Riunione politica - convocazione


2008? 2009?

Rispondo a questa ma è una comunicazione di servizio.
La riunione (cena inclusa) è a casa mia in Via ............Roma,
scala B int. 13, 4° piano, citofono ......
Ore 20:00- 20:30
Si tratta di una riunione, prepariamoci con serenità, la cena sarà frugale, oppure no, dipende da come mi gira.
Stiamo diventando ridicoli, patetici.
Se il volersi bene significa questo, amiamoci di meno, anzi sono convinta che se accetto che alcuni di voi mi stanno davvero sul cazzo, proprio per questo riuscirò a collaborare meglio con loro.
Perché, per lo meno, non ci sarà sto appiccicume personale, socio-affettivo, meta-relazionale, super-intimo, a imbrigliare il senso, la direzione, l'azione, il detto per sbaglio, il detto per giusto, il detto senza intendere di, il detto intendendo proprio il non detto, le chat logorroiche e le riunioni impossibili e tutto questo, li mortacci del miracolo, perché è un miracolo, tutto questo contemporaneamente e tutto insieme, nell'asincrono delle intenzioni e dei distinguo che si incontrano  in un punto di spiegazione e riflessione nella piazzetta delle nostre mail, dove uno ma ciascuno a turno e nessuno escluso,all'improvviso si trova in gogna, sotto processo, e io dico, perché lo dico, sotto processo da chi? da uno ma ciascuno nel suo turno, e nessuno escluso, ovvio.
La bellezza dell'entropia, niente può tornare al suo posto.
Potremmo ricominciare da qui: facciamo finta che ci odiamo. Tutti contro uno, ognuno contro tutti e contro ciascuno in un dettagliarsi di motivi tutti giustificati, in quanto presenti al pensiero individuale, che per un attimo, diventa sapere collettivo, episteme, potere, per poi cambiare idea subito dopo, e nel voltagabbana delle opinioni, si dirige verso altro sapere, verso altro episteme, verso altro potere e li si sofferma, ma sempre per un attimo.
Stasera comincerò a togliervi il saluto, anzi propongo che entrando in casa ci si sputi anche un po' in faccia, magari sulla soglia così non sporca.
Io sono bravissima a sputare. All'occhio.
Mi sta arrivando un'onda di sdrammatizzazione inaudita. Mi sta venendo un impeto comico, ironico, satirico, sardonico, non credo che mi passerà prima di un anno.
Qualcosa volge ormai all'irriverenza. Mi chiamo irriverentemente fuori da questa serietà e non ho intenzione, mai più, di esservi ricondotta.
Mi è tornata la voce eretica, il riposizionamento nello sberleffo, nella burla, nel giullarismo migratorio e resistente. Molto resistente.
Sto ridendo a crepapelle di noi, del fatto che, per vera jattura, non riusciamo a  resuscitare i morti, non riusciamo a fare giustizia dei morti, non riusciamo a far cambiare idea alla gente, non siamo razzisti con l'esterno, questo no, per carità, ma tutto il razzismo lo viviamo al nostro interno, riversandolo nel nostro piccolo cortile, e poi R. è stanco, e I. è dispiaciuta, e io mi sono avvilita, e S. ha sofferto, e C. è ucciso, e E. si è sotterrato ululando per giorni, e V. ha la bronchite, tutti abbiamo covato rivalsa in modo che l'uno, tutti, ciascuno a turno, sia riconosciuto dall'altro, da tutti, da ciascuno a turno.
E daje..
Ci vorrebbe un orgasmo, anche piccolo.

sabato 25 maggio 2013

E tu sei amata



(2008?)

Amica mia diletta,
ci lascia soli l’amore. L’anima si ripiega a cercarsi, invasa da altro, conquistata dall’altro, da quell’unico altro, quell’unico nome, occhi e mani e respiri, quell’unico odore e sentire, quell’unoassoluto, e tu non sei tu.
Più.
Un giorno l’amore viene, leggiadro apre di un vento insolente le stanze stantie, solleva la polvere e confonde i ricordi, le idee sulle quali si è eretto il castello di carta, apre le porte dei luoghi più sacri e lasciati al silenzio, dove abbiamo riposto la nostalgia per partire alla guerra, per quel misero pezzo di vita che issiamo sulle nostre bandiere.
Quando l’amore viene, l’anima si gonfia di ignoto e si vuota di sé, si smarrisce e si domanda del senso perduto di un tratto, rubato da un dio capriccioso dal volto coperto. 
Ma il senso era lì che aspettava da anni, rifugiato nell’ultima stanza dopo il labirinto del drago. E il senso eri tu, l’essenza fissata nel tempo, nella smorfia che la storia ti ha scolpito sul viso, nei gesti che vani si credevano vivi.
Quando l’amore viene, ci taglia la testa di un colpo netto di spada, e tu non sei tu.
Più. 
L'anima vaga, impazzita di dolore e paura del vuoto di sé, si cerca nell’altro, in quell’unico altro che sa dove il dio ha nascosto la testa e le parole muoiono in gola.  L'anima si morde la coda, si avvolge e si svolge, respira l’attesa, prega in silenzio per la testa perduta che dorme fra le braccia di un dio.
E tu ti chiedi, Dove sono stata e dove intendo restare se non per questo insostenibile senso.
Sii leggera perché tu non sei tu. Più.
Le stanze si stanno riempiendo di fiori, il drago si è addormentato e il labirinto si è perso.
E tu sei amata.

sabato 18 maggio 2013

Il cane, l'orso e la coperta



Un cucciolo di cane molto piccolo, di molti colori, con una coda molto paffuta, le orecchie né su né giù e un'infinità di peli arriva su un'isola deserta di uomini insieme al suo padrone, che non si sa quale mestiere faccia, ma si sa che deve fare qualcosa di specifico sull'isola in questione. Noi vediamo le vicende dal punto di vista del cane, per questo il mestiere del padrone è irrilevante. Come pure è irrilevante se sia buono o cattivo, bello o brutto e così via. I cani amano senza condizioni e non cercano la moralità in quanto sono morali e non c'è niente di più immorale della ricerca della moralità. Tutto questo potrebbe dirla lunga sulla loro capacità affettiva.
Il padrone fa le sue misteriose cose sull'isola e il cucciolo la perlustra.
Verso mezzogiorno e un quarto incontra un piccolo orso. Non sappiamo dove sia la madre. Sappiamo che non è morta. Lo si capisce dallo sguardo del figlio. Il fatto che l'orso sia un figlio è fuori discussione. Potrebbe essere, la madre, andata a cercare da mangiare, a grattarsi con un albero, a scopare con un orso. Non si sa. Ma non c'è. Anche perché se ci fosse stata la storia d'amore tra cane e orso sarebbe nata più lentamente. Invece è velocissima. I due si innamorano perdutamente. E si dividono tutto nell'isola, isola compresa, per un lunghissimo, eterno periodo di tempo. Il padrone finisce il suo misterioso lavoro. Prende il suo cucciolo, salgono sulla barca e si allontanano. Il cucciolo si dispera. Ma l'orso si disperaanzidipiù. La disperazione dell'orsacchiotto è la disperazione di tutto ciò che è vivente dalle origini del cosmo a ora che sono le 10 e 23 del duemilaseiesimo ventiquattro maggio dopo Cristo e prima di non si sa cosa.
Passa del tempo. Il padrone è sempre uguale. Il cucciolo è un cane adulto. Tornano sull'isola. Il cane si precipita alla tana dell'orsacchiotto. Che è diventato un orso smisurato. Il cane lo riconosce immediatamente e si incucciola. E' tutto una festa. L'orso è molto infastidito da questa manifestazione di immaturità. Chiaro che non lo riconosce. Il cane fa il pazzo. L'orso gli dà qualche zampata per allontanarlo. Potrebbe dividerlo in trentasette parti uguali, ma non lo fa. In sostanza gli dice togliti dai coglioni. Il cane soffre come un cane. Tutto questo dura un tempo interminabile. Dopo un'oretta il padrone richiama il cane e tornano alla barca. Il cane è disperato. Si allontanano. L'orso si avvicina alla riva. E allora si ricorda tutto. Ricorda la disperazione universale che ha provato vedendo andare via una barca con dentro un animale e l'amore. E ora che ha sviscerato i meandri del pensiero acuto e ne ha fatto un nodo savoia sa disperarsi ancora di più e ancora meglio. La sua disperazione non finisce neanche quando la barca finisce dal mare.
Ma il tempo dell'attesa non si attraversa mai, perché è un tempo che non si consuma.
Gira intorno a sè stesso come un cane arrabbiato con la sua ombra e per questo, almeno così dicono tutti, chi aspetta non invecchia come gli altri e ha un modo tutto particolare di sembrare giovane  perché prigioniero di un tempo incapace di proseguire la sua strada.
Il tempo dell'attesa è fatto di poche ore, una manciata di istanti, sempre gli stessi: gli stessi secondi, gli stessi minuti, lo stesso straziante rintocco di orologio che finge di segnare un movimento che non c'è e non può accadere.
E poi è cattivo e ti illude: si traveste di nuovi giorni, ma sono sempre gli stessi, ti illude che la luna alta nel cielo porti nella sua pancia d'argento il presagio di un'alba diversa, ma niente, tutto ritorna nel non ritorno, tutto inizia senza principio e soprattutto non finisce.
Il tempo che sta in mezzo fugge alla trama degli eventi.
Quel respiro fitto del mondo che vive, e ogni respiro è un granello di tempo diverso e ogni granello di tempo è gonfio di un evento piccolo, quasi invisibile, e conta poco, cosa vuoi che possa contare un evento piccolo piccolo dentro un granello di tempo, ma i granelli si riconoscono e si tengono per mano e si infittiscono, stringendosi gli uni agli altri come punti croce e punti erba su un lenzuolo di nozze che le donne con pazienza ricamano, e tutti insieme, i più vicini e i più lontani, ricoprono il mondo, e un cane capitato per caso (perché gli eventi si sistemano sempre a caso) incontra un orso che se ne frega, e se ne frega perché gli sono capitati i granelli di tempo indifferente, altra cosa sarebbe stata con granelli più attenti. Ma tant'è i granelli vanno a caso, secondo il loro capriccio si mettono insieme e ricoprono il mondo e il mondo respira di eventi che gonfi stanno nella pancia del tempo e sono come bambini nei marsupi di pelo che guardano il mondo che respira di sotto e a volte è un orso che non capirà.
Ma poi. mica finisce.
Perché se puta caso la trama degli eventi (non tutta, solo quel pezzetto di coperta) decide, contro la sua stessa natura, di restare appiccicata a qualcosa, allora succede che quel frammento di trama ti si avvolge fitto fitto addosso e sono sempre gli stessi granelli di tempo e i loro eventi rinchiusi nei bozzoli panciuti che ricopriranno la tua vita e, per miracolo, il tempo non passerà.
Per questo il cane è ancora lì che aspetta e pure l'orso a modo suo, con tutta la sua peculiarità di pelo bruno che non sa che fare.
La trama non si è ancora disfatta e va a finire che si stanno tirando la stessa coperta che è corta per forza di cose.
Poiché la tirano ognuno dalla sua parte il tempo non si consuma, i granelli di tempo rimangono lì, sempre gonfi degli stessi piccoli eventi appiccicati a quella parte di mondo che, da un certo punto di vista, va dalla coda di un cane alla schiena di un orso. Ma questo è solo un modo semplice di guardare le cose.
E' evidente che poi la trama degli eventi farà succedere qualcosa. Solitamente tutta la trama che è già molto lontana e continua a farsi e disfarsi nei suoi modi infiniti, ad un certo punto si accorge che le manca un pezzetto voltandosi indietro, sentendo che qualcosa le manca  perché alla trama degli eventi non sfugge mai niente.
E sono dolori quando  la trama degli eventi  si volta di scatto a cercare un pezzetto di sè che si è perduto o cacciato nei guai (e questo succede più spesso) perché, girandosi come una ballerina di tango,  tira di un botto gli eventi tutti da una parte ed è ovvio che ne capitano di tutti i colori  in quanto  interi pezzi di mondo rimangono senza coperta.
Fortunatamente dura poco e le cose prima o poi si sistemano.
Così, a volte, è necessario che la trama degli eventi si riposi su di noi in modo diverso, richiamando i pezzetti perduti, distratti nel dispetto di appiccicarsi da qualche parte, gioiosi di ripetersi per un pò.
Succede che lì nei pressi (è tutto nei pressi, in questo momento una galassia blu respira nella finestra di un computer) ora è possibile assistere al non incontro di un elefante e di un colibrì. L'elefante immenso, pochi battiti di cuore al minuto, infiniti tempi in un'ora, lento come un elefante; il colibrì, minuzia, ipotesi di uccello, migliaia di battiti al minuto, veloce come un colibrì. Se si trovano nello stesso posto non si vedono, perché la loro mente vive tempi diversi. Dunque in questo momento sono l'uno di fronte all'altro (questo è reso possibile dal fatto che il colibrì vola) e si guardano. Ma non si vedono.
Li vede il cane. Li vede l'orso. E dacché il cane e l'orso vedono un fenomeno che si sta manifestando nei pressi scoprono, non necessariamente nell'ordine:
che non basta essere nello stesso luogo per incontrarsi, se si vive un tempo diverso.
che poiché il colibrì e l'elefante sono oggettivamente nello stesso luogo e nello stesso tempo o l'elefante e il colibrì non esistono o non esistono lo spazio e il tempo.
Optano per la seconda ipotesi, in quanto entrambi vedono l'elefante e il colibrì, ed entrambi non vedono lo spazio e il tempo.
Realizzano dunque che qualcosa che non esiste sta impedendo a due creature di vedersi.
Realizzano inoltre che quello che sta impedendo alle due creature di vedersi è la loro idea dello spazio e del tempo.
E mollano la coperta.



ControFinale
E comunque non si sa se siano davvero loro a mollare la coperta oppure la trama a volerla indietro a tutti i costi.
Se la trama si accorge che le manca un pezzetto, un piccolo buco nel suo manto cangiante che le turba l'umore, si mette a fare un tale casino che poi è ovvio che gli elefanti e i colibrì non si vedono pur essendo nello stesso luogo. Se la trama dei granelli di tempo gonfi di eventi si arrabbia succede che intere parti del pianeta rimangono senza eventi, una siccità, una carestia di accadimenti, mentre altre parti ne hanno troppi e sono soffocati di cose che accadono.
Oppure può succedere che nello stesso pezzetto di mondo ad un elefante capitino granelli di tempo bucati, a cui gli eventi sono scivolati via, ed è per questo motivo che non vede volare il colibri che, diversamente, si ritrova a sbattere le ali in una nuvola di eventi senza guscio di tempo.
E' strano che il cane e l'orso se ne siano accorti. Questa è una cosa inspiegabile.

Scritto da SuSeMt fra il24eil29maggiodel2006

sabato 4 maggio 2013

Tacito dixit

Corruptissima republica plurimae leges

Le leggi sono moltissime quando lo Stato è corrotto

venerdì 26 aprile 2013

Un nuovo incipit


Tempo fa ho rifatto l’incipit de "Il Profumo” di Patrick Süskind (Traduzione di G. Agabio, Tea, 1988), trasformando le sensazioni olfattive in sensazioni visive.
Ovvio che il colore del romanzo dovesse essere il nero


Patrick Süskind
MtA
Al tempo di cui parliamo, nella città (Parigi, XVIII sec., n.d.r.) regnava un puzzo a stento immaginabile per noi moderni.


Le strade puzzavano di letame, i cortili di orina, le trombe delle scale di legno marcio e di sterco di ratti, le cucine di cavolo andato a male e di grasso di montone;


le stanze non aerate puzzavano di polvere stantia, le camere da letto di lenzuola bisunte, dell’umido dei piumini e dell’odore pungente e dolciastro dei vasi da notte.



Dai camini veniva puzzo di zolfo, dalle concerie veniva il puzzo dei solventi, dai macelli puzzo di sangue rappreso.


La gente puzzava di sudore e di vestiti non lavati; dalle bocche veniva un puzzo di denti guasti, dagli stomaci un puzzo di cipolla e dai corpi, quando non erano più tanto giovani, veniva un puzzo di formaggio vecchio e latte acido e malattie tumorali.





Puzzavano i fiumi, puzzavano le piazze, puzzavano le chiese, c’era puzzo sotto i ponti e i palazzi. 


Il contadino puzzava come il prete, l’apprendista come la moglie del maestro, puzzava tutta la nobiltà, persino il re puzzava, puzzava come un animale feroce, e la regina come una vecchia capra, sia d’estate che d’inverno.”
Al tempo di cui parliamo, nella città regnava un’assenza di luce a stento immaginabile per noi moderni.


Le strade soffocavano nel fosco di palazzi malridotti, i cortili restavano in ombra, le trombe delle scale salivano immerse nell’ oscurità e le cucine erano avvolte dal cupo di fuliggine e ceneri.

Le stanze nascoste dai pesanti tendaggi celavano la vergogna della polvere stantia, della muffa di lenzuola mal lavate, delle cimici e dei pidocchi ingrassati dal calore dei piumini, dei vasi da notte ossidati di urina giallognola e putrida, lasciati nell’incuria sotto i baldacchini.
Dai camini saliva il tetro delle esistenze, dalle concerie emanava il fosco della rivolta, dai macelli fluiva lento il rosso del sangue versato per la pinguedine di corte.
La gente era ombra di sudore, miseria sospesa nei vestiti laceri; le bocche erano smorfie di fame e di disgusto, frastagliate del vuoto di denti caduti, dagli stomaci salivano voci consumate frammiste alle bestemmie e i corpi, quando non erano più tanto giovani, rilucevano pallidi di inedia.




Avvolti in una mesta caligine si stendevano i fiumi, le piazze, le chiese abbandonate dagli uomini e dai lumi, era il lutto sotto i ponti e nei palazzi. 

Il contadino era nero come il prete, l’apprendista come la moglie del maestro, nera era tutta la nobiltà, persino il re era nero, nero come un animale feroce e la regina come una capra blasfema, tutto svaniva in ombra sia d’estate che d’inverno.