mercoledì 23 dicembre 2009

Uzoma Emeka

Da: Roberto Malini
Inviato: martedì 22 dicembre 2009 22.32
A: EveryOne Group
Oggetto: Uzoma Emeka, nigeriano testimone di abusi nel carcere di Teramo, è morto a 32 anni per "cause naturali"


Milano, 22 dicembre 2009. In Italia il razzismo ha raggiunto punte di una gravità mai vista. La legge razzista 94/2009 ha trasformato i migranti, i Rom e i profughi in esseri senza diritti, che vivono nascosti e braccati come topi, per timore dei Cie, delle violenze in carcere e della deportazione. Stranieri assassinati o aggrediti non fanno più neanche notizia. Nelle scuole è comune che bambini e ragazzi insultino pesantemente i compagni di origine straniera, specie se hanno la pelle scura o sono di etnia Rom. Nelle strade, l'intolleranza è frequente e quotidiana. Persino negli stadi, è ormai normale sentire cori contro i calciatori di origine africana, fra cui il recente "Un negro non può essere italiano", intonato dai tifosi della Juventus Torino, che regolarmente inneggiano alla morte del giovane campione di origine ghanese Mario Balotelli. Sono episodi che si risolvono con una multa di scarsa entità. 


Venerdì scorso il giovane 32enne nigeriano Uzoma Emeka, rinchiuso nel carcere di Castrogno (Teramo) è morto in circostanze misteriose. Il 22 settembre 2009 aveva assistito al pestaggio da parte delle guardie di un altro detenuto e aveva avuto il coraggio di denunciare il crimine. Dopo tale atto di coraggio, avrebbe dovuto essere trasferito per evitare possibili ritorsioni da parte del personale penitenziario. Invece niente, è stato lasciato lì, dove è morto. Come accade nel 50% delle morti misteriose, che raggiungono percentuali più alte nel caso di vittime straniere, le autorità hanno spiegato la tragedia "per cause naturali". Ci si chiede quali siano le cause naturali che possano uccidere un ragazzo di 32 anni. Se si trattava di una malattia incurabile, perché era ancora detenuto? Se si tratta di altre cause, che siano spiegate e il caso non venga ancora una volta insabbiato. Ancora una volta segnaliamo alle Istituzioni europee e all'Alto Commissario Onu per i Diritti Umani l'episodio e la situazione dell'intolleranza in Italia, anche se abbiamo notato come l'attuale legislatura sia restia a stigmatizzare tali episodi, anche a causa del fato che la maggior parte dei protagonisti delle ultime Risoluzioni dedicate ai diritti civili non sono stati neppure ricandidati dai rispettivi partiti alle recenti elezioni europee.






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sabato 19 dicembre 2009

Dispensario delle parole estinte: Amicizia, amore

"Ognun vede, a un dipresso, le differenze che corrono tra l'amicizia e l'amore, anche quando le non sono differenze di sesso.
Può esservi amicizia, e innocente, tra uomo e donna: amore tra donna e donna, uomo e uomo.
Se non che, l'amore può essere affetto naturale di padre a figliuolo o a figliuola, di madre a figliuola o a figliuolo; l'amicizia non è da natura nell'uomo, ma la conciliano la simpatia e l'abitudine.
Più: l'amore, dove non sia da natura, può comportare certa disuguaglianza; l'amicizia richiede conformità d'opinioni e di stato.
Un tutore, in parte almeno, ama il suo pupilo; un vecchio prende ad amare un bambino: cotesta non si dirà certo amicizia.
Tra vecchi e giovani, tra superiore e inferiore, essa è quasi impossibile.
Così, nell'amore di sesso diverso, tra moglie povera e marito ricco, tra uomo colto e donna rozza, sarà viva la corrispondenza dell'amore, ma difficile potrà stringersi vera amicizia.
Cos' anco nelle affezioni naturali, è raro che il figlio divenga veramente amico di suo padre.
Inoltre l'amicizia è più stabile; l'amore può scemarsi, spegnersi, mutarsi in orrore.
La vera amicizia, anche cessata, lascia dietro a sé, quasi a guardia del tempio abbandonato, l'affetto."

Niccolò Tommaseo, Nuovo dizionario dei sinonimi della lingua italiana, quarta edizione milanese accresciuta e riordinata dall’autore, Milano per Giuseppe Reyna, Librajo-Editore, M.DCCC.LVIII

Voce 313- Amicizia, Amore, pag. 55


venerdì 18 dicembre 2009

Dispensario delle parole estinte: Alzamento

"Sollevazione non è che traslato: il levarsi di moltitudine non piccola a rumore per sdegno cruccioso. Il primo moto della sollevazione potrebbe dirsi sollevamento: ma questo ha poi senso proprio: sollevamento di terreno, di superficie qualsiasi. Sempre però è l'idea di forza che spinge di sotto in su, e anco per questo differisce da innalzamento, che per lo più rende imagine di maggiore altezza. Chi crede innalzarsi, oppur sollevarsi, sollevando altrui a ira, prepara a sé e ad altri caduta e giacere più grave.
Non sollevate le moltitudini, ma innalzatele.
Innalzamento e nel proprio o nel traslato; alzamento, nel proprio."

Niccolò Tommaseo, Nuovo dizionario dei sinonimi della lingua italiana, quarta edizione milanese accresciuta e riordinata dall’autore, Milano per Giuseppe Reyna, Librajo-Editore, M.DCCC.LVIII

Voce 294 - Sollevamento, Sollevazione, Innalzamento, Alzamento, pag. 50


giovedì 17 dicembre 2009

Dispensario delle parole estinte: Amante

"L'innamorato, per lo più, chi non ha colti ancora i frutti materiali dell'amore.
Ha buono e mal senso: ma oggidì l'ha sovente ridicolo, perchè ridicolo pare chi confessa l'amore; confessare l'odio è cosa più nobile a molti.
Amoroso, in molti dialetti, l'innamorato o il damo; ma nel toscano non ha questo senso comunemente, e serbasi solo alle parti teatrali: primo amoroso, secondo amoroso.
Il ganzo può essere vecchio o giovane, bello o brutto, purché sia stromento d'illecito piacere o di lucro turpe. Questo i latini chiamavano amasio.
Questo, con vocabolo più forte, noi chiamiamo drudo; che aveva senso innocente in antico, ora l'ha di dispregio.
Amico, voce nobilissima, acquistò in tempi miseri, senso affine a ganzo e a drudo. E in certe città non è quasi vergogna dire di donna: ha l'amico."

Niccolò Tommaseo, Nuovo dizionario dei sinonimi della lingua italiana, quarta edizione milanese accresciuta e riordinata dall’autore, Milano per Giuseppe Reyna, Librajo-Editore, M.DCCC.LVIII

Voce 301- Amante, Innamorato, Amoroso, Amasio, Amico, Ganzo, Drudo, pag. 51



venerdì 11 dicembre 2009

CRONACHE DI UNA ZINGARA

GIOVANNA DA FORZA, CRONACHE DI UNA ZINGARA NELLA LOMBARDIA DEL ‘600

di Enrico Masci


Leggendo un curioso racconto di cronache italiane del ‘600 raccolte e commentate da Andrea Zanardo, si ha la conferma di come la percezione nei confronti degli zingari non sia mutata nel corso dei secoli. Questo racconto dal titolo “Cingari, Bravi, Soldati di Ventura nella Lombardia Spagnola” raccoglie oltre a una serie di bandi, editti, grida e cacce all’uomo, aventi come oggetto gli zingari, o “cingari” come venivano chiamati allora, anche interessanti documenti personali quali, passaporti e salvacondotti rilasciati dalle autorità dell’epoca.
Risulta interessante rilevare come, a fronte di prestazioni a valore aggiunto e nella fattispecie quelle svolte dai Soldati di Ventura, l’atteggiamento delle classi dominanti divenisse rispettoso, anche nei confronti dei cingari, arrivando a premiare i vari servigi resi con apprezzabili vantaggi sociali.
In questo ‘600 italiano, le condizioni igieniche malsane e la pessima alimentazione portavano a periodiche epidemie di peste. Già a partire dal secolo precedente, gli zingari venivano accusati di diffondere il morbo, di “portare il male” a causa del loro stile di vita promiscuo, nomade e libertino (interessante questo aspetto riguardante le abitudini sessuali) e per questo furono condannati a lasciare il Ducato di Milano (1506).
Agli inizi del Seicento il cardinale Federico Borromeo, quello dei Promessi Sposi per intenderci, è responsabile della persecuzione di donne accusate di essere “strigae”, incolpando inoltre “quei vagabondi che vengono chiamati cingari” di rapire i bambini cattolici. Leggende come questa erano diffuse anche tra i letterati e gli uomini di cultura e accuse simili toccavano tutte le minoranze, primi fra tutti gli ebrei, accusati di compiere gli stessi crimini efferati.
Tra queste cronache italiane, particolarmente significativa è la vicenda di una zingara che ebbe risalto e notorietà in tutta la Lombardia.
Giovanna da Forza nasce a Novara nel 1639, sposa lo zingaro e “Soldado de Ventura” Ambrogio Cazzaniga che grazie alla sua professione riceve dal Governatore di Milano il “libre Passaporte [...] y que no pueda ser molestado”. In questa cronaca si manifesta subito un aspetto interessante che caratterizzerà la storia degli zingari nel nostro paese, cioè la legittimità della loro presenza elargita attraverso un riconoscimento sancito dai poteri forti e la conseguente persecuzione fisica esercitata in sua assenza. L’Italia quindi risulta un paese europeo storicamente assai coerente.
Nel 1675 anche i figli di Giovanna e Ambrogio ottengono un “libre Passeporte”, in cui Giovanna viene definita “de Nacion Gitana”. Il significato di questo frammento cronachistico è notevole. La nazione gitana è chiaramente un’invenzione, tuttavia esprime la necessità di classificare un popolo non aderente ai canoni, arrivando ad immaginare un’ipotetica nazione con cui relazionarsi. Nonostante i limiti, questo approccio oggi sarebbe considerato eretico e surreale, anche se è capitato di vedere, in un documento della Repubblica Italiana rilasciato ad uno zingaro nel 2006, una fantomatica “Cittadinanza Slava”.
Nel 1681 la famiglia di Giovanna viaggia attraverso la Lomellina e la Brianza assieme a una quarantina di altri cingari, tra essi sei soldati di ventura di cui uno, Giovanni da Giussano si era distinto nella campagna d’armi presso la città di Tortona. La storia è in grado di offrire aneddoti insperati infatti, la famiglia “da Giussano”, da cui prende il nome la cittadina lombarda, ha come illustre antenato il leggendario Alberto, capitano della Compagnia della Morte ed eroe della Battaglia di Legnano del 29 maggio 1176 combattuta tra i Comuni lombardi e l'imperatore Federico Barbarossa. Si deve ammettere che registrare tra i discendenti dell’eroe della Lega un valoroso zingaro riconcilia con il pregiudizio razzista, per mezzo dell’ironia insita nelle esistenze.
Le cronache d’epoca continuano a segnalarci la presenza assidua di questa famiglia allargata presso i mercati di Melzo e Settala. Nel 1694 viene conferito alla ormai 55enne Giovanna da Forza un salvacondotto di alto profilo, che le dava diritto di viaggiare con la sua famiglia “per tutte le terre del Ducato senza venire molestata”. L’autorità che questi documenti conferiscono a Giovanna da Forza, fa ragionevolmente supporre che la stessa avesse diritto di rappresentare i suoi numerosi parenti nelle mansioni più qualificate come, il supporto logistico delle carovane che spesso erano al seguito delle truppe, le trattative politiche per gli insediamenti temporanei e i percorsi di attraversamento, le negoziazioni con i nobili lombardi per il recruitment delle truppe, l’approvvigionamento e cosi via.
Alla fine di questa rumorosa esistenza tra soldati, bambini, carovane, parenti, nobili, preti e nipoti, Giovanna poteva contare in un numero impressionante di passaporti e salvacondotti intestati a lei e attraverso di lei alla sua famiglia: una vera matriarca (ad esempio di suo marito Ambrogio non si registrano altri permessi a parte quello ottenuto prima delle nozze).
Mentre in precedenza i cingari uomini, in qualità di capifamiglia, ottenevano passaporti e licenze di transito, nel ‘600 tali licenze venivano concesse anche alle cingare. Fra le altre si può ricordare Cecilia Pallavicino, che nel 1681 si spostava liberamente tra la Germania e l’Italia. Risulta evidente che nel XVII secolo molte donne cingare lombarde iniziavano a svolgere un lavoro fondamentale: la gestione del rapporto con le autorità gagè (i non zingari) e che questo nuovo incarico difficile e tutto politico venne a trasformare molte donne zingare lombarde nei capi delle loro famiglie.
Cosa sia rimasto oggi di tutto questo è difficile da valutare, forse romanticamente è rimasto qualcosa nella laboriosità e nell’intraprendenza femminile lombarda. Certo è che, nonostante le condizioni ambientali notevolmente avverse, Giovanna da Forza, donna, straniera e diversa, fu in grado di conquistare prestigio tra i suoi cingari e grande rispetto tra i gagè. Peccato si tratti di una storia di 4 secoli fa.



mercoledì 9 dicembre 2009

Dispensario delle parole estinte: Ubertà

"- L’abondanza d’una miniera sta nel molto metallo che da quelle si trae; la ricchezza, nel valore di esso metallo. L’abondanza può produrre ricchezza. – Laveaux.

Abondanza gran quantità di cose di specie qualsiasi; ricchezza, possessione di danari non pochi, e di beni che servono agli usi del vivere; opulenza, quantità di agi e di potere, forniti da larga ricchezza.

L’abondanza può essere nociva, la ricchezza inutile, l’opulenza è sempre goduta.
In un paese privo di commercio e d’industria, l’abondanza delle miniere non è per anche ricchezza.
L’avaro è ricco ma non opulento.

- Ricche, e le persone e le cose; opulente, solo le persone, o le città e i regni, guardati come persone.
Si può godere una certa abondanza, e non esser ricco; può il ricco stentare, e non vivere in abondanza. – Boinvilliers.
- Dovizia è quantità che serve appieno all’uso, e ne sopravanza alquanto. Ubertà è abondanza dei doni della terra e degli animali che l’agricoltura educa e alimenta. Ha qualche traslato. – Gatti."

Niccolò Tommaseo, Nuovo dizionario dei sinonimi della lingua italiana, quarta edizione milanese accresciuta e riordinata dall’autore, Milano per Giuseppe Reyna, Librajo-Editore, M.DCCC.LVIII

Voce 72 – Abondanza, Ricchezza, Opulenza, Dovizia, Ubertà

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martedì 8 dicembre 2009

Dispensario delle parole estinte: Abondanza, Copia

"Copia è meno. Ci può essere copia di una cosa senza abondanza. La voce abondanza sta di per sé, ed ha efficacia; copia perché acquisti peso uguale all’altra, ha bisogno dell’aggiunto di grande, grandissima. Per questa ragione diremmo col Boccaccio: abondantissima copia; ma non potremmo: copiosa abondanza.
L’esser più generico e men forte dà a copia un qualche vantaggio.
Ed è, che abondanza può prendersi in senso più facilmente sinistro che copia. Copia di parole, senz’altro, non indica mai difetto; abondanza di parole, piuttosto. Questa differenza, in alcuni casi vera, viene dall’origine, copia da co-opes; abondanza da ab-unde.
La gran quantità di liquidi può essere molesta e nociva. E così si dimostra ancora perché copia abbia sempre buon senso, dove abondanza può dirsi anco d’errore o di male; perché l’opes latino non aveva mal senso.
L’abondanza è più relativa; è più assoluta la copia.
Anche il poco è abondanza a chi ha pochi bisogni; ma questa abondanza non si potrebbe dir copia. Un villico nuota nell’abondanza, possedendo tanta quantità di cose, con quante sarebbe poverissimo un magistrato.
Ma quand’io dico copia, astraggo (per quanto da idee di quantità è possibile astrarre) dal maggiore o minore bisogno, e intendo indicare notabile quantità."

Niccolò Tommaseo, Nuovo dizionario dei sinonimi della lingua italiana, quarta edizione milanese accresciuta e riordinata dall’autore, Milano, per Giuseppe Reyna, Librajo-Editore, M.DCCC.LVIII
Voce 69 – Abondanza, Copia, pag. 12


Dispensario delle parole estinte: Ardenza, Arsione

“Nel traslato, ardore, vale la continua od almen prolungata intensità dell’affetto: ardenza, l’intensità momentanea. Nell’ardenza dell’ira, anco l’uomo più mite può lasciarsi andare ad eccessi; l’ardor dell’amore trasporta ad atti sconvenienti anco i più saggi.

Più: ardore è anco di sentimenti nobili e puri (2); l’ardenza è un momento che ha del pericoloso, per lo meno, e del soverchiamente vivace.
L’ardor dell’amor puro messo al cimento, si trova talvolta in certo stato d’ardenza che non è tutto platonico: egli è perciò che conviene evitar l’occasione.
L’arsione è nella gola; viene da sete difficile a vincersi o dal calor della febbre: l’arsura è ne’ campi; vien dalla calda stagione.”

Niccolò Tommaseo, Nuovo dizionario dei sinonimi della lingua italiana, quarta edizione milanese accresciuta e riordinata dall’autore, Milano per Giuseppe Reyna, Librajo-Editore, M.DCCC.LVIII
http://books.google.com
Voce 44- Ardore, Ardenza, Arsione, Arsura, pag. 8
(2) BUONARROTI: Questo possente mio nobile ardore Mi solleva da terra.


domenica 6 dicembre 2009

8 anni

Il giorno dopo il mio ottavo compleanno mio padre mi disse parole gesticolanti e frettolose che subito svanivano, vinte dalla soggezione e da un amore timido.
Mi parlava attraverso l’allegria giocosa di chi ti aspetta dall’altra parte, perché lui dall’altra parte c’era già.
Poi si dileguava come il vento, lasciandomi nel naso l’odore di ferro e di plastica con cui alimentava macchine giganti, dinosauri alla catena che sbattevano i denti in un fragore senza tregua, secondo cadenze ritmate dagli schianti e dalle pause con cui riprendevano fiato.
Torceva gli elementi secondo i suoi disegni, in piedi davanti al tecnigrafo a tracciare forme e a tendere inganni, perché la materia fosse finalmente vinta ad un nuovo senso.
Un giovane Plutone che animava il fuoco, incurante del fato.