lunedì 27 febbraio 2012

La libertà di una donna d'occidente



Sono nata a  Ivrea, cresciuta all’ombra dell’Olivetti, madre azienda, madre comunità, un marchio sociale indelebile, posto ad uno ad uno su tutti i suoi figli.
Il fatto che già da piccola fossi, come tutti i bambini olivettiani, sottoposta a visite psico-pedagogiche, che ci fossero asili aziendali per le donne impegnate nel lavoro, e che non si respirasse quella cupa sensazione di isolamento tra piemontesi e immigrati del sud, come diversamente a Torino, città che trasudava tristezza, ha rappresentato una condizione di scenario per lo sviluppo della mia esistenza, che non posso e non voglio omettere.
Per la verità la maggior parte delle donne si trascinava ogni mattina nei soliti mestieri di operaia e segretaria, in famiglia era relegata all’imperitura funzione di riproduzione del codice sociale, e tuttavia abbiamo esperito collettivamente un modello che tentava altre vie, che delineava una diversa speranza, miseramente tradita durante il decennio buio degli anni ’80.
Mio padre e mia madre mi hanno cresciuto nella libertà. Questa parola era parte del vocabolario sentimentale, del quotidiano fluire della generazione, dall’adulto alla bambina, con tutte le contraddizioni che, una per una, sto ancora affrontando a 48 anni.
L’educazione alla libertà  si realizzava, come è logico che sia, nel suo senso più politico: essere nati negli anni ’60 comportava (ancora per poco) l’eredità della Resistenza partigiana e l’impegno per un futuro ingenuamente chiaro, quasi ineluttabile, la democrazia, l’uguaglianza, la fratellanza. Tale impostazione, con tutti i suoi meriti, ha certamente trascurato il fatto che la libertà è prioritariamente un oggetto della coscienza (personale e collettiva), e lo sviluppo del “mero” lato politico della questione non ha garantito, come noto, il conseguimento dello scopo ideale.
Ho avuto due genitori meravigliosi, strani, eccentrici, diversi in tutto, (mia madre cattolica, mio padre comunista, mia madre il sentimento, mio padre la ragione), in casa mia si parlava, si discuteva, ci si amava e a volte detestava secondo natura, lasciando il canone sociale fuori dalla porta.
E’ stata una bella esperienza essere figlia dei miei, almeno a guardarla da qui, non sempre a starci in mezzo, sballottata fra le onde dei Due che a volte sembravano moltiplicarsi come divinità pagane, amorevoli e numinose.
Sono cresciuta in un soffio, non mi sono accorta degli anni ’80, almeno non subito. E’ difficile rendersi conto dei mutamenti di corso, i valori sociali e politici si degradavano in sfumature impercettibili: a 20 anni, a Milano durante l’Università, nessuno più parlava di libertà, ma solo del primato dell’economia, e l’Olivetti, espugnata come una fortezza medievale intorno alla quale era cresciuta una tribù, un’etnia, un’enclave di eretici,  decadeva senza rimedio.
Non che fossi immune dal contagio. Sarebbe disonesto da parte mia negare il fatto che per molti versi mi sono abbandonata alla corrente accarezzando sogni di gloria materiale e individualista, e che ho contribuito, nella mia gioventù, alla falsificazione preannunciata da Pasolini, profeta in patria e a disposizione nella libreria di casa.
Al fatto di essere una donna pensavo molto poco. Davo per scontato la libertà, la parità, nell’ingenuità che affligge le generazioni successive, portate per incuria, per irresponsabilità, a disperdere il patrimonio conquistato a furia di cortei e collettivi solo qualche anno prima.
Nessuno più parlava di condizione delle donne, di femminismo, e l’ultima assemblea autenticamente politica a cui avevo partecipato, risaliva al 1978 per l’omicidio di Aldo Moro, quando avevo 14 anni.
Ho riflettuto su questa coincidenza, e mi lascio attrarre dalla suggestione che il movimento di emancipazione sia stato costretto a ritirarsi non appena gli uomini hanno ricominciato a sparare, nel 1977, quasi che l’umanità femminile si riduca per abitudine al silenzio, davanti all’orrore.
Tant’è, negli anni ’80 nessuno parlava più di niente, le donne erano tranquille, risarcite con alcuni diritti civili, e una parte di me stessa pensava che tutto procedesse per il meglio.
Ma si sa che la vita gioca contemporaneamente su più tavoli, e conservava per me, nelle stive interiori, semi d’erba selvatica, capaci di resistere alla rieducazione, al movimento che riduce  l’esistenza a norma,  che la piega, che la tradisce nei suoi aspetti più creativi e più liberi.
Ero inquieta, strattonata fra l’istanza inconsapevole, direi naturale, di essere (nel senso di essere quello che si è e quello che si diventa), e la volontà di appartenere al mondo e alle sue forme, di fare parte della comunità, di riflettermi nella moltitudine, per dare approdo al movimento soggettivo.
Invero questa contraddizione esistenziale mi era nota da sempre. Fin da piccola, con quei Due a nutrirmi a pane e libertà, pane e studio, pane e impegno, pane e autonomia, avevo assunto una forma diversa, che da fuori si vedeva. Ero semplicemente strana rispetto alle mie cugine, alle mie coetanee, e la cosa non mi rendeva felice.
Ricordo che da ragazzina avrei fatto carte false per leggere almeno un romanzo di Liala, divorato a chili dalle mie cugine e assolutamente proibito a casa mia dove vigeva, per la scelta dei libri che potevo leggere, una ferrea censura di impostazione sovietica. E l’allegra femminilità che animava le mie giovani amiche, nel vestire, nell’esercizio di quell’intimità che è solo delle femmine, nel fidanzarsi fin da piccole, attraversando tutta la gamma delle gioie e delle pene amorose, supportate nell’affrontare questo destino dalla sequela di madri, nonne e zie, e padri lasciati in disparte, mi suscitava forti sentimenti di inadeguatezza, visto che i Due facevano di tutto per tralasciare il tema, o per rimandarlo il più possibile, giudicando il matrimonio una finalità del tutto secondaria per la mia vita.
E tuttavia la femminilità (anche di quel tipo) mi albergava. Mi innamoravo, ero carina, corteggiata, l’intelligenza e l’impostazione “sovietica” (con qualche tratto maoista, e altri cheguevariani), non mi difendevano né dalle pressioni sociali, né da quelle psicologiche, che sono parte del tessuto della specie, della biologia dell’essere, e rappresentano le trappole sulla strada di ogni donna.
Credo che i Due, ad un certo punto, abbiano nutrito qualche dubbio nell’osservare la loro creatura alla ricerca del sentiero verso se stessa.
Bene, la verità è che ho voluto tutto, tutto quello che una donna della generazione di  mia madre non avrebbe mai osato chiedere.
Mi sono trasferita a Roma, ho voluto la carriera, la maternità, la libertà di amare un uomo e di non amarlo più, di fare due figli con due uomini diversi, fuori dal matrimonio, di vivere le mie stagioni, di essere la madre di Fausto e Alessandro, non una madre assoluta o astratta, ma proprio quella che sono, di vivere la gioia perfetta di essere sola quando è tempo, padrona nel mio ampio privato, pronta a vivere l’amore solo se accade, non come una necessità sociale, né uno status, e provando la meraviglia di attraversare il mondo come donna impegnata nella sua opera, nel suo lavoro, che può realizzare se stessa, amando i suoi figli, i suoi cari, i tanti amici, l’uomo che le è accanto.
Tutto questo mi è costato immensamente.
Il mondo, là fuori,  ha sempre remato contro, senza sosta.
La conquista di una posizione professionale (autonoma, senza rete) ha implicato un impegno sovra umano: anche in gravidanza ho sempre lavorato, fino all’ultima ora. Quando ero più giovane guardavo a queste imprese con noncuranza, oggi ne sento l’ingiustizia, lo sfruttamento.
Conciliare la vita professionale con la maternità vuol dire sottoporsi ad una disciplina eroica, che solo l’amore può facilitare, mitigando i momenti di smarrimento, di stanchezza, quando devi fare appello a tutto il tuo coraggio per resistere e non mollare.
E per la verità il nemico non stava sempre fuori, perché come ho detto, la libertà è un oggetto della coscienza, è un discorso con se stessi che implica sofferenza, impegno, disciplina, essendo la coscienza estremamente permeabile all’omologazione, alla gregarietà e facilmente confonde le esigenze del mondo con le proprie.
Non mi sono piegata e, oggi, nonostante le pressioni esterne continuino pervicacemente ad operare per rendere la vita oltremodo difficile, sento di essere arrivata a me, a quell’essere che mi cercava fin da ragazzina.
 Lo so, sono partita da lontano e forse non arriverò,  ma il tema della discriminazione delle donne non si può esaurire nella semplice osservazione del suo angolo.
Pensare alla discriminazione come mera lesione dei diritti delle donne  è conseguenza di quel misero indirizzo politico denominato “pari opportunità”, dove qualunque visione politica e personale della libertà e dell’uguaglianza è ridotta all’angusto, alla prospettiva corta, priva di energia, di vita, di immaginazione.
Se la discriminazione si osserva rispetto a questo standard, dobbiamo avere il coraggio di affermare  che lo standard è mediocre. Qualunque donna che conservi ancora l’anima vigile, sente nel profondo di se stessa l’ipocrisia sottesa alle famigerate pari opportunità, che rappresentano solo il bieco compromesso a cui ci siamo piegate.
Non credo alle pari opportunità: io voglio l’uguaglianza, la libertà,  un mondo più intelligente e non mi adeguo a mortificare queste idee con parole vuote, vanamente astratte.
Non pensiate che io sia nostalgica delle piazze, o del femminismo urlato, duro e puro. A quella stagione sono molto grata, ovviamente, perché mi ha dato diritti che mia nonna e tutte le donne prima di lei non hanno conosciuto. Rifiuto altresì questo vuoto movimento femminista contemporaneo che, cercando di scimmiottare l’originale, si perde nelle stupidaggini del linguaggio di genere, Gentile ministro, Gentile ministra, poche idee incartate in gergo politicamente corretto.
E intanto qui crepiamo di fatica.
La questione, purtroppo, è di ben più grave portata rispetto alla semplice discriminazione.
Le donne stanno male, ma non lo sanno e quando lo sanno non lo dicono e se lo dicono diventa una lamentela intima, fra amiche, come le ragazzine della mia adolescenza.
Le donne lavorano, lavorano, lavorano, fanno sempre qualcosa, ormai arrese a questa ignobile parità che le ha messe a tacere anche quando, in metropolitana, stanche dopo una giornata di lavoro durante la quale hanno già detto troppi sì, appese al corrimano, le buste della spesa, la testa piena di figli, di mariti, di case da governare, si ritrovano lo scemo in pantaloni ben accomodato sul sedile, la camicia ancora in ordine (stirata da una donna), la faccia decisamente meno stanca, la testa spesso nel pallone, che non si alzerà per cederle il posto,  tanto c’è la parità.
E il problema, in questo esempio banale, non è tanto la discriminazione (che inizia dalla mattina e in metropolitana non si è ancora esaurita), quanto il fatto che la signora appesa al corrimano non sa dare un nome allo sfruttamento, qualcosa le ha tolto la possibilità di rendersi conto, è in piena emorragia energetica, mentre il mondo pensa alla partita.
Io non odio gli uomini, ma credo di avere qualche motivo per stare in guardia. Sempre a proposito di femminismo contemporaneo, una delle ultime (e ormai tritatissime) idee è che gli uomini abbiano paura delle donne. Davvero? Non mi risulta che gli uomini siano violentati dentro le loro case, picchiati, uccisi dalle loro mogli o compagne. Chi dei due soggetti ha motivo di avere paura?
Mi si risponde che l’uomo ha paura dell’indipendenza e dell’autonomia della donna. Chi? Quello della metropolitana?
Insomma si può parlare di discriminazione quando l’uguaglianza e la giustizia siano pienamente realizzate e si osservi, in qualche caso, un’eccezione. Nel nostro sistema le eccezioni sono troppo numerose, diffuse, automatiche.
Ciò che succede alle donne d’occidente non è semplice discriminazione, ma qualcosa di più sottile, malefico, pericoloso per l’integrità psichica: la riduzione a personalità addomesticate, a diventare delle liberte con l’anima morta, private dalla capacità di riflettere sulla propria condizione umana, separate le une dalle altre in modo che non vi sia terra per i semi d’erba selvatica.
La libertà deve essere prima di tutto ripensata da noi stesse, a partire dalla nostra vita, perché purtroppo il personale è ancora politico e non abbiamo finito il lavoro.

venerdì 24 febbraio 2012

E pensare che c'era il pensiero


Il secolo che sta morendo
è un secolo piuttosto avaro
nel senso della produzione di pensiero.
Dovunque c'è, un grande sfoggio di opinioni, piene di svariate
affermazioni che ci fanno bene e siam contenti
un mare di parole
un mare di parole
ma parlan più che altro i deficienti.

E pensare che c’era il pensiero
Di Gaber-Luporini
1994 © Edizioni Curci srl Milano

mercoledì 22 febbraio 2012

Ditelo voi, se vi siete salvati

Scritto con Sus tra un anno e l'altro


Sarebbe un gesto di generosità estrema spendere un certo numero di parole sui giudicanti. Spendere è il verbo esatto alla fattispecie, in quanto il giudizio di cui si intende è una forma di commercio.
Tutti esprimiamo giudizi, ma questo dato di fatto non ci rende tutti giudicanti. Ci sono diverse categorie di giudicanti. Ed è divertentissimo, ora, star qui a provare a giudicarli, senza per questo diventare giudicanti. Ma il giudicante, nella pochezza del suo intimo, questa differenza non sarà mai in grado di comprenderla. Perché, appunto, è solo un giudicante.
Il giudicante numero uno, quello che più fa uscire i semi dal seminato, le palle da biliardo dai tavoli, le talpe dalle buche, le sigarette dai pacchetti morbidi e duri, è l’ex “peccatore”. Nome della categoria: i convertiti.
Il convertito è colui che ha risolto, che si è risolto. In sostanza, colui che ha trovato un sistema non condannabile – da altri come da sé – di prendersi per il culo. Insomma, un peccatore represso e sibillante. Uno che sa, anche quando dice di sapere di non sapere. E’ estremamente severo. Tanto più si dimostra indulgente tanto più è severo. La sua indulgenza è crudeltà conventuale. Non ha dubbi perché non può permettersi di dubitare, ma talvolta finge di farlo, perché la sua mente di seconda mano ha assimilato la necessità dell'accettazione del dubbio, e allora non ha dubbi sulla opportunità di dubitare, ma in effetti dice di dubitare senza sapere di cosa dubitare. Se si lasciasse scivolare nelle luminose discese di un punto interrogativo, nelle montagne rosse del simbolo più onesto che l'uomo sia mai riuscito a concepire, correrebbe il rischio di ritrovare la sua vera natura, quella di peccatore, e tornare a essere un peccatore manifesto. Il giudicante categoria convertito sa precisamente tutto quello che va fatto e tutto quello che non va fatto mai e in nessuna circostanza, e se i suoi occhi che non guardano si rivolgono a un cielo che non possono vedere nel tentativo di indicare incertezza al guardante (che per solito è il giudicato) questo accade perché anche l’incertezza in alcuni casi è qualcosa che va fatto. Non è uno stato dell'animo, è un gesto.
La sua pietà è distanza, la sua comprensione presunzione, la sua bontà  assoluta incapacità di amare, di giocare il gioco.
Il giudicante resterebbe una cosa innocua e lasciante il tempo che neanche trova non essendo in grado di cercare ma solo di frugare nei rifiuti di carte altrui, se non fosse per il fatto che esiste il giudicato.
Allora adesso diciamo qualcosa sul giudicato, vittima di questa categoria di giudicanti.
Il giudicato non vive in una categoria, ma in uno stato dell’animo, che può essere eterno o - grazie al cielo o a qualsiasi cosa fatta eccezione per il giudicante - provvisorio, e che deriva da qualcosa di assolutamente inutile (ma politicamente socialmente e religiosamente vitale) come il senso di colpa.
Se il giudicato non avesse da qualche parte in sé questa immondizia del senso di colpa, il giudicante non potrebbe metterglielo nonostante i suoi sforzi. Qui il verbo metterglielo è inteso in due sensi, e l'oggetto è in entrambi nascosto. Nel primo caso l'oggetto è, appunto, il senso di colpa. Nel secondo è il culo.
Tant’è. Portiamo allora il giudicato fuori da questa parentesi senza odore e torniamo alla sua)
Paura.
La paura del giudicato non ha confini pur avendo limiti in sé e per sè e questo la dice lunga sull’impossibilità di governarla. E’ come una macchia d’olio, scivola lenta e inesorabile invischiando il senso e le forme, a volte è così fluida e leggera da infilarsi nei pertugi più intimi, dove l’anima nasconde la colpa e gli occhi si gettano a terra, il cuore si stringe, si raccoglie inutilmente, e per lo sforzo innumerevoli gocce di imbarazzo ricoprono, pietose, uno scacco annunciato.
La paura per il giudicato è come un vizio in cui perennemente ricade, una dipendenza, un attaccamento, un accanimento, un automatismo, ebbene sì, una perversione. Il senso di colpa lo stringe e lo costringe, avvinghiandolo a sé come un amore finito e vivo solo di scelte incompiute, di scelte non scelte, di sbagli per caso e per ciò irreparabili perché il giudicato non sapeva, no, non sapeva, che uno sbaglio è per sempre e l’errore è l’errare perché sempre ritorna.
Si racconta che Paura e Anima si contendano il Bambino dagli occhi sempre Aperti che è il nome con cui i più vecchi dei vecchi della prima storia, quella storia che ormai tutti hanno dimenticato, chiamavano il senso di colpa. Anima nasconde il bambino nel grembo e quando dorme, per non farlo scoprire, lo avvolge di fili di trama lasciati cadere dal sonno mentre compie il suo viaggio. Paura si nutre dei fili e segue le tracce, attende che Anima ritorni per chiederle indietro il bambino. Anima vorrebbe disfarsene ma non può. Senza quel bambino che le riempie la pancia di notte, senza quegli occhi in cui specchia incertezze e il proprio assoluto non senso, senza il sentimento di ciò che è nel mezzo fra vita e non vita (e non è l’una e non è l’altra, ma potrebbe), senza la lotta con Paura che è l’abisso che meglio conosce, non saprebbe che fare. E allora nasconde il bambino nel fondo di sé.  Ma Paura sa, perché è così che deve essere. Ritrova il bambino e ride di iena felice e scodinzola con le molte code che le fanno mantello e rotea gli occhi di giubilo e si gratta la pancia di pelo e fa tutte le cose che fa Paura quando è felice.
Ma non lo porta via.
No.
Lo lascia perché sa che Anima è una buona madre e che ne ha bisogno per reggersi sempre in bilico fra vivere e morire, soffocando la colpa e morendo di lei, tutto insieme, e non si sa, almeno fino alla fine, se sarà l’una o l’altra cosa (e né l’una né l’altra, ma questo non potrebbe).
Che volete che sia un misero giudicante, un porta bandiere, un timoroso di altari ai piedi del nulla, uno già sazio, pasciuto, appagato di finti timori al più irritanti come le mosche di inverno che, sopravvissute per caso, si godono ancora quel poco di tempo?
Che volete che sia un misero giudicante spoglio di sé, un albero rinnegato dalle sue stesse foglie, un albero calvo già in gioventù e che seppur causa del suo mal non lo si vedrà mai piangere su se stesso?
Ditelo voi, se avete scontato tutto, se vi siete salvati, se vivete e come vivete senza il Bambino dagli occhi sempre Aperti che nello sguardo porta con sé la possibilità di smarrirvi, l’unica possibilità che davvero vi è data.

venerdì 17 febbraio 2012

Malattia identitaria


Il dibattito sulla cultura identitaria della sinistra, quell'ambito politico che riflette a partire dalla rappresentazione di sé, sembra essere la conseguenza più negativa di un abbandono del campo di significati che costellano il comune, ciò che autenticamente fonda l'appartenenza.
Gli ordini con cui il liberismo e il riformismo (quello di sinistra) dividono e declinano gli individui e le loro relazioni in identità classificabili e riconoscibili, tra cui quelle dei consumatori, dei lavoratori, dei risparmiatori, degli imprenditori, della gente del nord e di quella del sud, degli italiani e degli immigrati, si rappresenta speculare alla spasmodica ricerca di un approdo dopo il naufragio delle idee.
La questione della difesa dei lavoratori ha mancato l'osservazione della condizione esistenziale nel Lavoro, lasciando che l'agitazione intorno alle necessità imposte dal sistema globalizzato avesse la meglio sulla debolezza delle nostre posizioni, avendo per primi abbandonato la finalità unificante della prima persona plurale.
E che dire dei pacifisti, degli ambientalisti, dei non violenti ma non del tutto pacifisti, dell'ossessione per la cultura della differenza relativamente al genere, all'orientamento sessuale, ai diversi femminismi, in una pervicace dissociazione che, pur di determinarsi,  ha perso tutte le occasioni per coniugarsi nel Noi.
Le identità che nella rappresentazione positiva di se stessi diventano le "anime plurali della sinistra" e che certamente potevano vivificare l'indirizzo politico, si sono progressivamente ridotte ad una individuazione schizoide e perciò fatalmente separata dal tutto, dando un luogo alle politiche dell'orto e del cortile.
Penso (nel fatale riflessivo del pensare) che l'identità presenti caratteristiche inconciliabili al plurale, inizia e si compie nel proprio intorno e ha il solo vantaggio di consolare nella conferma di un linguaggio che diventa gergo di pochi, incapace di considerare gli aspetti mortiferi del suo movimento.