mercoledì 22 febbraio 2012

Ditelo voi, se vi siete salvati

Scritto con Sus tra un anno e l'altro


Sarebbe un gesto di generosità estrema spendere un certo numero di parole sui giudicanti. Spendere è il verbo esatto alla fattispecie, in quanto il giudizio di cui si intende è una forma di commercio.
Tutti esprimiamo giudizi, ma questo dato di fatto non ci rende tutti giudicanti. Ci sono diverse categorie di giudicanti. Ed è divertentissimo, ora, star qui a provare a giudicarli, senza per questo diventare giudicanti. Ma il giudicante, nella pochezza del suo intimo, questa differenza non sarà mai in grado di comprenderla. Perché, appunto, è solo un giudicante.
Il giudicante numero uno, quello che più fa uscire i semi dal seminato, le palle da biliardo dai tavoli, le talpe dalle buche, le sigarette dai pacchetti morbidi e duri, è l’ex “peccatore”. Nome della categoria: i convertiti.
Il convertito è colui che ha risolto, che si è risolto. In sostanza, colui che ha trovato un sistema non condannabile – da altri come da sé – di prendersi per il culo. Insomma, un peccatore represso e sibillante. Uno che sa, anche quando dice di sapere di non sapere. E’ estremamente severo. Tanto più si dimostra indulgente tanto più è severo. La sua indulgenza è crudeltà conventuale. Non ha dubbi perché non può permettersi di dubitare, ma talvolta finge di farlo, perché la sua mente di seconda mano ha assimilato la necessità dell'accettazione del dubbio, e allora non ha dubbi sulla opportunità di dubitare, ma in effetti dice di dubitare senza sapere di cosa dubitare. Se si lasciasse scivolare nelle luminose discese di un punto interrogativo, nelle montagne rosse del simbolo più onesto che l'uomo sia mai riuscito a concepire, correrebbe il rischio di ritrovare la sua vera natura, quella di peccatore, e tornare a essere un peccatore manifesto. Il giudicante categoria convertito sa precisamente tutto quello che va fatto e tutto quello che non va fatto mai e in nessuna circostanza, e se i suoi occhi che non guardano si rivolgono a un cielo che non possono vedere nel tentativo di indicare incertezza al guardante (che per solito è il giudicato) questo accade perché anche l’incertezza in alcuni casi è qualcosa che va fatto. Non è uno stato dell'animo, è un gesto.
La sua pietà è distanza, la sua comprensione presunzione, la sua bontà  assoluta incapacità di amare, di giocare il gioco.
Il giudicante resterebbe una cosa innocua e lasciante il tempo che neanche trova non essendo in grado di cercare ma solo di frugare nei rifiuti di carte altrui, se non fosse per il fatto che esiste il giudicato.
Allora adesso diciamo qualcosa sul giudicato, vittima di questa categoria di giudicanti.
Il giudicato non vive in una categoria, ma in uno stato dell’animo, che può essere eterno o - grazie al cielo o a qualsiasi cosa fatta eccezione per il giudicante - provvisorio, e che deriva da qualcosa di assolutamente inutile (ma politicamente socialmente e religiosamente vitale) come il senso di colpa.
Se il giudicato non avesse da qualche parte in sé questa immondizia del senso di colpa, il giudicante non potrebbe metterglielo nonostante i suoi sforzi. Qui il verbo metterglielo è inteso in due sensi, e l'oggetto è in entrambi nascosto. Nel primo caso l'oggetto è, appunto, il senso di colpa. Nel secondo è il culo.
Tant’è. Portiamo allora il giudicato fuori da questa parentesi senza odore e torniamo alla sua)
Paura.
La paura del giudicato non ha confini pur avendo limiti in sé e per sè e questo la dice lunga sull’impossibilità di governarla. E’ come una macchia d’olio, scivola lenta e inesorabile invischiando il senso e le forme, a volte è così fluida e leggera da infilarsi nei pertugi più intimi, dove l’anima nasconde la colpa e gli occhi si gettano a terra, il cuore si stringe, si raccoglie inutilmente, e per lo sforzo innumerevoli gocce di imbarazzo ricoprono, pietose, uno scacco annunciato.
La paura per il giudicato è come un vizio in cui perennemente ricade, una dipendenza, un attaccamento, un accanimento, un automatismo, ebbene sì, una perversione. Il senso di colpa lo stringe e lo costringe, avvinghiandolo a sé come un amore finito e vivo solo di scelte incompiute, di scelte non scelte, di sbagli per caso e per ciò irreparabili perché il giudicato non sapeva, no, non sapeva, che uno sbaglio è per sempre e l’errore è l’errare perché sempre ritorna.
Si racconta che Paura e Anima si contendano il Bambino dagli occhi sempre Aperti che è il nome con cui i più vecchi dei vecchi della prima storia, quella storia che ormai tutti hanno dimenticato, chiamavano il senso di colpa. Anima nasconde il bambino nel grembo e quando dorme, per non farlo scoprire, lo avvolge di fili di trama lasciati cadere dal sonno mentre compie il suo viaggio. Paura si nutre dei fili e segue le tracce, attende che Anima ritorni per chiederle indietro il bambino. Anima vorrebbe disfarsene ma non può. Senza quel bambino che le riempie la pancia di notte, senza quegli occhi in cui specchia incertezze e il proprio assoluto non senso, senza il sentimento di ciò che è nel mezzo fra vita e non vita (e non è l’una e non è l’altra, ma potrebbe), senza la lotta con Paura che è l’abisso che meglio conosce, non saprebbe che fare. E allora nasconde il bambino nel fondo di sé.  Ma Paura sa, perché è così che deve essere. Ritrova il bambino e ride di iena felice e scodinzola con le molte code che le fanno mantello e rotea gli occhi di giubilo e si gratta la pancia di pelo e fa tutte le cose che fa Paura quando è felice.
Ma non lo porta via.
No.
Lo lascia perché sa che Anima è una buona madre e che ne ha bisogno per reggersi sempre in bilico fra vivere e morire, soffocando la colpa e morendo di lei, tutto insieme, e non si sa, almeno fino alla fine, se sarà l’una o l’altra cosa (e né l’una né l’altra, ma questo non potrebbe).
Che volete che sia un misero giudicante, un porta bandiere, un timoroso di altari ai piedi del nulla, uno già sazio, pasciuto, appagato di finti timori al più irritanti come le mosche di inverno che, sopravvissute per caso, si godono ancora quel poco di tempo?
Che volete che sia un misero giudicante spoglio di sé, un albero rinnegato dalle sue stesse foglie, un albero calvo già in gioventù e che seppur causa del suo mal non lo si vedrà mai piangere su se stesso?
Ditelo voi, se avete scontato tutto, se vi siete salvati, se vivete e come vivete senza il Bambino dagli occhi sempre Aperti che nello sguardo porta con sé la possibilità di smarrirvi, l’unica possibilità che davvero vi è data.

1 commento:

SENE ha detto...

Introspezione gaudente.