venerdì 30 ottobre 2009

Stefano Cucchi


A proposito di Stefano Cucchi, storia che mi indigna a tal punto da volermene andare da questo paese.
Passi tutto ma quello che è successo a Stefano Cucchi, se confermato, è troppo.
Ho un figlio di 20 anni, per me bello come il sole, frequenta l'università, ha amici, spesso cambia o è cambiato dalle sue ragazze, insomma tutto come deve andare.
Tre settimane fa o giù di lì al casello di Livorno, all'imbocco della statale Livorno-Grosseto, viene fermato dalla Guardia di Finanza (o erano
Poliziotti, o erano Carabinieri, per me pari sono, uomini e donne che dovrebbero incarnare il senso dello Stato, della Comunità, nel rispetto delle regole di prevenzione dei reati e della sicurezza e tutto questo con intelligenza e senso della misura, che non sempre si vede).
Era in macchina con un suo coetaneo, un compagno di Università.
I Signori delle Forze dell'Ordine come per brevità li chiameremo, li hanno fermati, li hanno controllati e non hanno trovato nulla di quello che sempre vanno cercando.
Siccome i Signori delle Forze dell'Ordine (tutto maiuscolo come sull'attenti) non hanno trovato niente e gli mancava quel quid di soddisfazione che invero sembra necessaria quando si può finalmente esercitare quel piccolo potere(con i deboli)che fa sentire vivo chi incarna il potere dal punto di vista della mediocrità,li hanno condotti dentro il casello, dove sempre gli stessi Signori delle Preparatissime Forze dell'Ordine hanno a disposizione una stanza.
Lì nonostante le timide proteste, e senza neanche spiegare in termini di legge i principi che permettevano l'adozione di una tale (secondo me quanto meno irrituale) procedura, né tanto meno declinare i diritti dei ragazzi perché evidentemente Lor Signori sono calati culturalmente nella presunzione assoluta che quando un individuo incappa in un Signore delle Forze dell'Ordine alla caccia di reato, i diritti sono di fatto sospesi, lì, dicevo prima di perdermi nuovamente in una rabbia che non trattengo, i ragazzi hanno dovuto spogliarsi integralmente e sottoporsi all'umiliazione di piegamenti sulle ginocchia per individuare potenziale droga nascosta nell'orifizio anale, droga che ovviamente non c'era.
Quando mio figlio mi ha raccontato l'accaduto, io avrei denunciato questi Rappresentanti delle Pur Sempre Forze dell'Ordine, se mio figlio e il suo amico avessero avuto l'accortezza di prendere il numero di targa e di chiedere (come è nei loro diritti) le generalità di questi Membri che avranno pure un nome, dico io, a parte l'alienazione in abbondanza.
Ma si sa che i ragazzi sono innocenti e non sanno dare un nome agli abusi.
Poi sappiamo tutti che alcuni altri Signori delle Forze dell'Ordine Integerrimi e Ligissimi al Dovere, Pregni del senso della Patria e ancora Presunti Innocenti, tutto maiuscolo per carità, sono accusati di aver ricattato Piero Marrazzo addirittura (così sembra) attraverso l'introduzione di cocaina nell'abitazione della signora con cui il Presidente Marrazzo si intratteneva.
Adesso è difficile non sospettare che a Stefano Cucchi qualcosa di grave sia davvero successo e in cui le Sempre Tutelanti Forze dell'Ordine devono avere avuto un ruolo, non nell'aver procurato le lesioni a Stefano, non oso pensarlo e questo non possiamo dirlo, ma quanto meno nel non aver prestato adeguato soccorso e avvertito la famiglia di ciò che stava succedendo.
Mi chiedo: ma se un ragazzo viene colto in flagranza di reato nell'uso personale o nello spaccio di droga, perde i diritti alle cure tempestive e adeguate al suo caso?
La presunzione di colpevolezza (perché di questo si è trattato) può imporre che le Forze dell'Ordine possano non avvertire la famiglia e consentire UMANAMENTE PARLANDO una visita, visto che il ragazzo stava malissimo e con due vertebre rotte?
Quale gravissimo reato aveva compiuto Stefano Cucchi per cui i genitori (a cui rivolgo tutta la solidarietà di cui sono capace, come madre e come cittadino di questo paese ingiusto e poco intelligente almeno quando si esprime in pubblico)non hanno avuto la possibilità di AVERE NOTIZIE VERE riguardo la sua salute, SUBENDO IL CONTINUO VESSATORIO RIMPALLO BUROCRATICO IN CUI MANCAVA SEMPRE QUALCOSA ALL'APPELLO, L'AUTORIZZAZIONE DEL GIUDICE, LA CONTROFIRMA IN CALCE, LA MARCA DA BOLLO, mentre un nostro ragazzo moriva, uno dei nostri figli più belli.
Mi chiedo ancora se mio figlio si fosse ribellato e lo avessero condotto in carcere e se lì gli fosse successo l'evento senza colpevole di due vertebre rotte, avrei attraversato lo stesso incubo?
Mi sarebbe stato restituito mio figlio cadavere perché gli Integerrimi di cui sopra e loro affini sempre Onoratissimi non sanno vigilare quando è il caso?
Ma in quale paese stiamo vivendo?
Adesso le Forze dell'Ordine sono in piazza per reclamare giustamente per le poche risorse assegnate e (aggiungo) per un giusto stipendio che ritengo sacrosanto. Per inciso le Forze dell'Ordine reclamano contro le ronde che rappresentano simbolicamente la perdita di senso che caratterizza la nostra Nazione da tempo.
Ma forse meglio le ronde, almeno non c'è l'ipocrisia del Senso dello Stato, del Senso del Dovere, dei Diritti e di tutto quel bla bla scandaloso che fa da paravento alla scarsa intelligenza, alla mancanza di misura e di umanità.
Meglio qualcuno che ti ferma al grido di Cassola!! e poi non sai che cosa ti può succedere se quello che ti ferma sta giocando al "Repubblichini! A volte ritornano!", piuttosto che essere fermato da chi dovrebbe tutelare i nostri ragazzi e li trascina, travestito dalla Legge, nell'orrore.
I Signori delle Forze dell'Ordine non dovrebbero dimenticare che nell'esercizio del loro dovere devono TUTELARE i nostri ragazzi che per inciso sono loro concittadini, e potrebbero essere i loro figli.
Inoltre come madre mi è difficile spiegare a mio figlio che deve rispettare le nostre Amate Forze dell'Ordine, diffondendo speranza e fiducia più che un falso rispetto che fra l'altro non mi appartiene per formazione culturale.
Mi è difficile comprovare che siamo in un Paese dove la Legge non è un corpo astratto, un mostro che ti divora se non sei Qualcuno o figlio di Qualcuno che conta. Mi è difficile amare il mio paese e infondere lo stesso amore in mio figlio in modo che si realizzi un discorso di continuità e di prospettiva.
Come risolvere questa contraddizione: bombardiamo questi ragazzi di Bella Educazione Civica, gli chiediamo di partecipare alla vita politica, li condanniamo se fanno i bulli e poi, gli adulti che dovrebbero educare con serietà, con amore, senza mai perdere il senso dello scopo, che non è quello di reprimere brutalmente (quello è lo scopo di un cretino, anche se impersonificato da un Alto Grado delle Forze dell'Ordine, dispiace dirlo)quanto quello di essere giusti e seri, sono i primi a comportarsi da bulli ad un casello?


Foto: window_piece_02.jpg  - Album di Josh Staiger - www.flickr.com
DeepLink: Come si uccide un paese di Giancarlo De Cataldo - pubblicato su l'Unità il 3 novembre 2009

martedì 13 ottobre 2009

La mia macchinetta del caffè


La mia macchinetta del caffè gorgoglia di collera ogni mattina.
Brontola e ribolle di rabbia perché la metto sul fuoco più alto a che si sbrighi e non perda tempo, e a questa novità non si è mai abituata. La sento mentre gonfia l’acqua trattenendo il fiato e, con un ultimo soffio spazientito, spinge il vapore di orgoglio, lasciandosi andare all’ira di bolle e sospiri, di sbuffi e schizzi impazziti, fischiando furiosa finché non la libero dalle fiamme.
Così lentamente si placa, ritirando la marea di zampilli in soffi leggeri e imbronciati, quasi a reprimere il pianto.




Mi aparato del café gorgotea de cólera cada mañana. Gruñe y rehierve de rabia porque la pongo sobre el fuego más alto a que se apresura y no gaste tiempo, y a esta novedad no se ha acostumbrado nunca. La siento mientras hincha el agua reteniendo el aliento y, con un último soplo impacientado, empuja el vapor de orgullo, dejándose ir al cólera de burbujas y a suspiros, de bullones y bosquejos enloquecidos, silbando furiosa hasta que no la libero de las llamas. Tan lentamente se calma, retirando la marea de chorros en soplos ligeros y enfadados, casi a reprimir el llanto.




Foto: 3° almost ready - Album di Vali - www.flickr.com

lunedì 12 ottobre 2009

Pillole contro la memoria corta (1)

« Che cosa avete voluto? La parità dei diritti. Avete cominciato a scimmiottare l'uomo. Voi portavate la veste, perché avete voluto mettere i pantaloni? Avete cominciato con il dire "Abbiamo parità di diritto, perché io alle 9 di sera debbo stare a casa, mentre mio marito il mio fidanzato mio cugino mio fratello mio nonno mio bisnonno vanno in giro? Vi siete messe voi in questa situazione. Ognuno raccoglie i frutti che ha seminato. Se questa ragazza si fosse stata a casa, se l'avessero tenuta presso il caminetto, non si sarebbe verificato niente. »




DORDI Loredana, citazione tratta da Processo per stupro - Arringa dell’avvocato Angelo Palmieri difensore degli imputati accusati di stupro ai danni di una giovane di 18 anni, Tribunale di Latina, 1976.
Processo per stupro, Videocassetta VHS, s.l., s.n., 1979, IT\ICCU\LO1\0822812 di Loredana Dordi

giovedì 8 ottobre 2009

FUORI TEMA - VOTO 11 A 6

Signor Presidente del Consiglio,
sbaglia bersaglio.
Io fossi in Lei farei saltare immediatamente la testa del Ministro Alfano. E’ indubbio che abbia lavorato male.
Come un professore di Italiano davanti ad un tema di 5° liceo l’Alta Corte a suo tempo ha respinto il lodo Schifani perché era talmente zeppo di errori di sintassi giuridica da non conseguire il passaggio all’esame di merito. O meglio, se anche tale esame c’è stato, credo che l’Alta Corte, letteralmente sfinita dal travaglio, abbia ritenuto opportuno non infierire con il giudizio sul profilo di incoerenza costituzionale.
E oggi con il lodo Alfano siamo certi: non solo il componimento era grammaticamente scorretto, ma anche fuori tema.
Non so come abbia fatto Lei con i suoi figli, ma io con i miei mi comporto in questo modo: passi l’errore di grammatica, ancorché grave come un congiuntivo (e il Lodo Schifani era irricevibile da questo punto di vista), ma il fuori tema no. Il fuori tema è conseguenza dell’incuria, della pigrizia, della mancanza di giudizio. Inaccettabile.
Ecco perché al suo posto, recuperata la calma, farei saltare la testa al Ministro Alfano. Una punizione qui va data, secca, senza tergiversare, come un buon padre di famiglia.
Dispiace che nell’errore sia caduto anche il nostro Presidente della Repubblica: passi per Lei purtroppo vittima dei consigli distratti di avvocati ormai troppo pasciuti per potersi impegnare ancora con rigore, ma per gli esperti costituzionalisti del Quirinale, davvero non c’è appello.
Bene che fare ora?
Intanto come le ha consigliato il Presidente Cossiga (chiamato ai Suoi tempi benevolmente il Picconatore) si disponga al silenzio.
Il fatto che, Carta alla mano, e scomodati gli artt. 1, 24 e 138 della Costituzione, solo 11 giudici su 6 abbiano ribadito con più certezza di prima (ma non con certezza assoluta) che tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge, lascia aperto uno spiraglio sull’esito del prossimo esame.
Certo si tratterà di andare in Parlamento, di attivare la procedura di revisione costituzionale che certamente è fastidiosa implicando numerosi passaggi e le solite perdite di tempo che, e qui sono d’accordo con Lei, possono francamente irritare. Tuttavia, e questo è il punto, se Lei avesse avuto un Ministro della giustizia più competente, questa sonora bocciatura non ci sarebbe stata. Bocciatura che ripeto vale anche per il Presidente della Repubblica che ha firmato senza leggere, evidentemente terrorizzato dal litigio istituzionale e auspicando che la Corte, per una volta, chiudesse un occhio. Ma si sa che la Corte è puntigliosa e mentre esaminava il testo si è accorta, proprio come fa un professore di italiano, che il tema del ben noto studentello pigro, seppur ripulito dagli errori grossolani, era tragicamente sempre lo stesso.
Ancora questo! Avrà detto la Corte fra sé e sé.

mercoledì 7 ottobre 2009

Delirio di tutt_



Foto: giancolombopierpaolopasoliniballaconannamagnanimostrake9.jpg


13 febbraio 2007
Ho un problema che non dovrei sottoporvi adesso considerato il numero dei fronti aperti alla battaglia.
Tuttavia (il tuttavia è invero salottiero, infatti è la Arendt che ne fa un uso smodato) non posso esimermi dal criticare l’abitudine in cui il mondo è caduto (meglio scivolato) di considerare linguisticamente la differenza di genere come principio guida della buona comunicazione sociale.
Nell’illustrarvi lo stato di disagio in cui verso ogni volta io senta, legga o financo presagisca la tragedia del tentativo di comprendere il tutto sociale nel raddoppiarsi del genere (che sempre sociale è, in quanto categoria, classe e conseguente classificazione), cercherò di essere il più chiara possibile acciocché, se mai, non si debba più tornare sull’argomento. Si rende evidente, anche nel senso dell’imprudenza che a volte accompagna il rendersi palese di qualcosa, il ricorso continuo, formale e manierista, in ogni parola sospinta fuori a calci a far parte del mondo, (mentre lei, dico la parola, se ne stava al caldo, sotto le coperte della scarsità di pensiero non avvertendo alcuna evidente necessità di essere testimonianza di alcunché), alla differenza di genere nella comunicazione sociale.
E’ un continuo, nel senso di sistematico, continuativo, progressivo, ripetitivo, incessante, insistente e ormai reso stabile dall’abitudine, affacciarsi del “cari qui e care lì”, “care bambine e cari bambini”, “Gentili ministri e Gentili ministre”, con il conseguente occorrere (nel senso di incespicare, incappare, cadere) di storture grammaticali le cui prime vittime sono gli aggettivi i quali, in alcuni casi, si pluralizzano al maschile e che, almeno per coerenza formale, dovrebbero essere “rigenerati” rispetto al sostantivo di genere a cui si accompagnano.
Da ciò consegue, stortura dopo stortura, bruttezza per bruttezza, nella fisiologica proiezione geometrica in cui solitamente si moltiplica il brutto rispetto al bello che è fenomeno raro e irriproducibile, la necessità, per seguire la tendenza di essere giusti fino in fondo, di non marginalizzare il genere femminile negli aggettivi, e fatto trenta che si faccia trentuno.
Pertanto, sul “Cari tutti e care tutte” il problema non sussiste per grazia ricevuta, mentre per le gentili ministre, per esempio, il problema c’è e per risolverlo degnamente, urge cambiare gentili Ministre in "gentile" Ministre e pazienza se l’aggettivo rigenerato (ultima moda dopo quella del riciclo) si ritrova al singolare, almeno che si salvi la coerenza!
In ogni manifesto, in ciascun discorso, nei dispositivi di legge e loro affini, in qualunque lettera, messaggio, sms, informazione, comunicato, volantino, post-it, bigliettino e ancorché nei pizzini, e in qualunque mezzo cartaceo o virtuale adatto a contenere parole e rivolto a soggetti il cui numero sia maggiore di 1, ovvero il Sociale (con la S maiuscola ad intendere una struttura concettuale significante qualunque individuo umano maggiore di 1 raggruppato in una forma vicina o distante e anche in assenza di forma stabile purché diversa dall’individuale, e trasversalmente e alternativamente al complesso delle caratteristiche ammesse quali la cittadinanza, il genere, la religione, la lingua, il credo politico, e, soprattutto, a prescindere da ogni altra caratteristica soggettiva quale, ma solo a titolo esemplificativo, l’abitudine o meno a fare colazione) e così pure relativamente al contenuto dei soprannominati mezzi e pertanto nell’annuncio, nell’appello, nella preghiera, nell’intimazione e, ancorché raramente, nell’insulto, si ricorre alla differenza di genere definita sulla base dell’apparato sessuale che, come noto, articola il genere umano in due classi distinte e la cui complementarietà e differenza è utile solo a fini riproduttivi.
In buona sostanza il disagio mi sovviene dalla debole comprensione del nesso logico sotteso alla relazione tra apparato sessuale e organizzazione sociale e la presunta necessità, nel rivolgersi al sociale (secondo le declinazioni di cui al precedente e straripante paragrafo), di tenere conto della differenza dell'apparato medesimo che invero nulla racconta dell’identità sociale, concetto recente e per alcuni versi ancora poco studiato, in cui di volta in volta ricadono le trasversalità o le non differenze, gli aspetti comuni che rendono un individuo parte del Sociale, raggruppate da un interesse o da una finalità comune (per esempio la comunanza di essere lavoratore e di raggrupparsi insieme ad altri lavoratori a prescindere dalle altre “non differenze” o aspetti comuni ammessi al Sociale medesimo quali, per esempio, la religione o il tipo di spazzolino).
Se il Sociale nell’affermazione di sé (un sociale con forti connotazioni egoiche diremmo definendo, nostro malgrado, un paradosso) si dichiara nel “siamo tutti lavoratori”, il fatto che nella categoria “lavoratori” aggregata nello specificativo “tutti” ci siano due classi di apparato sessuale conta come il fatto che quello stesso gruppo sia formato da fascisti e da comunisti, da mussulmani o da cattolici, da chi usa il bidè e da chi, per tradizione ne può anche fare a meno.
In sintesi la domanda è: che c’entrano gli apparati sessuali delle lavoratrici e dei lavoratori con i diritti del lavoro?
E soprattutto cosa c’entra il linguaggio, unica vittima strattonata di qui e di là ad adattarsi alle sempre emergenti urgenze di comprendere le donne (nei discorsi e nelle decisioni e perché il comprendere (riunificare, non separare, assumere, accogliere) sia formalmente esatto, si realizza la disarticolazione della lingua nella sistematica e ossessiva differenziazione che di volta in volta si rende necessaria.
E, aggiungo poi, per gli altri? dico i gay, i trans, le lesbiche, chi ancora non lo sa e ci sta ancora pensando, come faremo a tenerne conto? Se non ne teniamo conto non esisteranno!!! E giù altra ingiustizia, altro che diritti di cittadinanza, qui si creano ben altri problemi come direbbe Stefan Trofimovic in preda ad un'insana agitazione (Dostowiesky Fedor, I Demoni).
Bene, allegramente affrontiamo, per l'intanto, il MondoNuovo (come emigranti in terra straniera) del neologismo di genere, nella scoperta che c’è il giudice e la giudicia, l’ingegnere e l’ingegnera e che di colpo, con un semplice e innocente mutamento di finale, tutta la forma rende giustizia alla mancanza di sostanza, grazie alla parola.
E in principio fu il verbo.
Bene.
Mi sento un po’ meglio.
Mi chiedo, tuttavia, se non si poteva pensare ad una soluzione più semplice, più pratica.
Invece di differenziare il linguaggio nelle due declinazioni, non si poteva neutralizzarlo?
Se una stortura va compiuta, invece di operarla per addizione (aggiungere una “o” oppure una “a” a seconda del genere escludendo comunque altre ampie categorie) non si poteva operare per sottrazione eliminando tutte le finali?
Verrebbe così:
car tutt, car bambin, gentil giudic, eminetissim cittadin,
Terribile è la fatica della forma, tuttavia, tutti, tutte, tuttx, tutty,.... tutt(n) nessuno escluso (perchè un altro mondo è davvero possibile, davvero, davvero) troverebbero il loro posto in un Sociale finalmente perfetto.
Oppure lanciamoci sui verbi che sono ancora un territorio politicamente inesplorato!
Un territorio di nicchia politica è sempre una fortuna!
I verbi, come sono? Come sono i verbi? Ve lo siete mai chiesto? Maschili o femminili?
L’agire dei verbi se ne frega e si fa incarnare dal soggetto, i verbi sono metagender, esseri superiori della sintassi umana.
Perfetto! Impariamo dai verbi e riscrivere i nostri gerghi, il nostro modo di pensare, perché rendere sessuato il Sociale rappresenta una perversione assoluta, come dice la mia amica Susanna (cfr. Rienzi, S., , Raccolta dei discorsi pronunciati nell'ottavo giorno, archivio n° 1/2007).
Infine avrei un'altra disquisizione sul meccanismo Sociale definito paradigma "della tensione fra coesione e finalità del gruppo - due realtà inconciliabili" (Mt@, letteratura a colori, Vol. II, 2007), ben applicabile ai piccoli gruppi dotati di leader umano (e quindi non ancora eteronomizzati).
Eh si, il potere viene dappertutto, come diceva il mio caro amico Foucault, e si sposta per istinti gregarizzanti (aspetto che nei Neanderthal si vedeva benissimo). Quanto era bravo!! Peccato che sia morto!
Ve ne scriverò appena possibile, siatene certi.

I simboli morti


Riporto una bellissima citazione di Lia Cigarini (1): “per alcune (e alcuni) la differenza significa sottolineare che le donne sono differenti dagli uomini (più etiche, meno violente, ecc.) che si differenziano quindi nei contenuti dagli uomini che rimangono per necessità punto di riferimento. Assimilarsi all’emancipazione o differenziarsi dagli uomini è la stessa operazione. Non c’è libera interpretazione di sé. Definisco questa concezione della differenza dell’ ordine delle cose. Altre (e altri) da parte loro, ritengono che la differenza consista nell’inventarsi il femminile attraverso ricerche e pensieri. Definisco questa idea della differenza dell’ ordine del pensiero. Penso invece che la differenza non sia né nell’ordine delle cose né nell’ordine del pensiero. La differenza è semplicemente questo: il senso, il significato che si dà al proprio essere donna, ed è, quindi dell’ordine simbolico”.

Questa definizione offre alla coscienza delle donne e alla perversione del gender (inteso come dispositivo concettuale che racconta della costruzione reiterata della società a partire dalla differenza sessuale e dal dominio sessuato), una splendida via.
Infatti alla facile asserzione che l’ordine simbolico è stato costruito, è un pre-dato, una struttura valoriale consolidata che ha dato origine ad una cultura dominante, si può obiettare che il simbolo ha di per sé una funzione trascendente e che nelle parole di Carl Gustav Jung (2) ha la potenzialità di liberare la prospettiva e il futuro:
“…il simbolo presuppone sempre che l’espressione scelta sia la migliore indicazione o formulazione possibile di un dato di fatto relativamente sconosciuto, ma la cui esistenza è riconosciuta o considerata necessaria. Simbolica è quella spiegazione la quale al di là di ogni immaginabile spiegazione, la considera come espressione di un dato di fatto sino a quel momento sconosciuto, inesplicabile, mistico o trascendente, dunque di un dato di fatto di natura soprattutto psicologica…. Fintanto che un simbolo è vivo è espressione di una cosa che non si può caratterizzare in modo migliore. Il simbolo è vivo solo fino a quando è pregno di significato. Ma quando ha dato alla luce il suo significato, quando cioè è stata trovata quell’espressione che formula la cosa ricercata, attesa o presentita ancor meglio del simbolo in uso fino a quel momento, il simbolo muore vale a dire che esso conserva ancora soltanto un valore storico. .. Che una cosa sia un simbolo o no dipende anzitutto dall’atteggiamento della coscienza che osserva: dall’atteggiamento, ad esempio, di un intelletto, che consideri il fatto dato non solo come tale, ma anche come espressione di fattori sconosciuti. …. Il simbolo vivo non può prodursi nella mente ottusa o primitiva, giacché una mente siffatta si appagherà di un simbolo già esistente come quello offertogli dalla tradizione. Solo l’anelito di una mente altamente evoluta, cui il simbolo offerto non fornisce più la suprema sintesi in un’espressione sola, può generare un simbolo nuovo.”


Fonti
(1) CIGARINI Lia, in Swif, Sito Web Italiano per la filosofia, La questione del genere nell’analisi sociologica, 3 ottobre 2000; per una sintesi biografica su Lia Cigarini vedi http://host.uniroma3.it/dipartimenti/filosofia/Iaph/donne/cigarini.html
(2) JUNG Carl Gustav, Tipi Psicologici (1921), in Opere Vol. 6, edizione diretta da Luigi Aurigemma, Bollati Boringhieri Editore s.r.l., Torino, il testo è tratto dalle Definizioni, pagg. 483-491

La foto è reperibile su http://www.flickr.com/search/?q=burka - archivio di Burning Man 2003

martedì 6 ottobre 2009

Curriculum Vitae: con chi ho studiato

<“Non so voi altri, signori ateniesi, sotto che effetto siate per via dei miei accusatori. So che io – si, io – ancora un poco e smarrivo il senso di me stesso, sotto quell’effetto. Troppo convincenti quei discorsi. Pensare che di vero – e basta dire questo – non hanno raccontato una parola. C’è un punto in quel mucchio di fandonie che m’ha strabiliato, quando vi ripetevano che dovete stare all’erta, a non farvi mettere nel sacco da me: sì, perché sarei un mostro di bravura, con le parole, io. Vedete, neanche un po’ di pudore hanno avuto, del fatto che saranno sbugiardati da me, concretamente, appena si chiarisca che non sono quel mostro di bravura. E questo è il fondo dell’impudenza loro, a mio vedere. A meno che per quella gente << mostro di bravura>> non significhi uno che racconta sempre il vero. Beh, se intendono questo, ammetterei anche io, nel mio piccolo, d’essere bravo parlatore: ma non nel loro stile. Ad ogni modo quella gente, ve l’assicuro io, di vero ha raccontato poco o nulla. Da me, da me ascolterete la nuda verità, ah per Dio, signori ateniesi, non sermoni imbellettati, come i loro, di espressioni e di fraseggi, tutti fregi e figure. Ascolterete ragionamenti in libertà, con le espressioni più correnti: ho la coscienza di raccontare cose rette, io. E nessuno in mezzo a voi s’illuda di sentire altro. No. Non sarebbe bello davvero, signori, presentarmi a voi e, con l’età che ho, sbozzare discorsi come un principiante. Per concludere, signori ateniesi, debbo chiedervi di farmi questa concessione: se sentirete che la mia difesa è nello stesso stile di parole che uso conversando, tutti i giorni, in piazza grande, all’ombra delle bancarelle, dove molti di voi m’hanno ascoltato, e in altri posti, non meravigliatevi di questo, non v’agitate.
Ecco il punto: oggi, io, sono entrato in un’aula di giustizia per la prima volta, e ho settant’anni buoni. Dunque è semplice: mi sento spaesato nel linguaggio in uso qui. Come se, nella realtà, fossi uomo di un altro paese: penso che avreste indulgenza se mi esprimessi nel dialetto, nei giri di frase del mio ambiente nativo. Faccio a voi una preghiera che mi pare onesta: lasciate perdere il modo con cui dico le cose – pessimo, eccelso che sia, non so, - concentratevi su un punto, coscienziosamente, cioè se dico cose rette o no. E’ la qualità di un giudice, questa, non c’è dubbio: di chi parla in pubblico, invece, è dire sempre il vero.”

Fonte: Platone, (a cura di Ezio Savino), Simposio, Apologia di Socrate, Critone, Fedone, 1987, Arnoldo Mondatori Editore s.p.a, Milano – Il frammento è tratto dal capitolo I dell’Apologia di Socrate, pagg. 159-161

Per la cronaca Socrate è nato nel 469 a.c., Platone è suo discepolo; anche io sono sua discepola, con poco profitto certamente.
Quindi quando mi chiedono, Con chi hai studiato? Con Socrate rispondo, Socrate mi ha insegnato a pensare, a stare zitta, a sentirmi stupida, a imbarazzarmi dei miei cattivi pensieri, e a volte, a ritrovarli puri, intatti, belli. Tutto questo a distanza di 2500 anni, ma davvero non abbiamo avuto problemi.
Per questo, se volete, mi permetto di promuoverlo come professore, per il tramite di Platone (Atene, 428 – 347 a. c.), ovviamente, un brano per volta, senza paura, è troppo chiaro, questo è il suo difetto, non ci sono scappatoie né pertugi dove ripararsi, ma, vi assicuro, non fa mai freddo.

Noi e Pasolini


Pasolini eats chocolate - La foto è scaricabile dal sito www.flickr.com - archivio di Dannrayv







(scritto nel 2005 - mese perso nella notte - Risposta ad un articolo di Fulvio Abbate sull'Unità dal titolo "L'eredità dispersa")



Ho 40 anni e come molti inermi della mia generazione, ho vissuto Pasolini attraverso un’intermediazione distorta, operata dalla cultura del nostro tempo che lo ha sempre descritto per sottrazione, filtrando dalla sua vastità e dalla sua grandezza di uomo e di intellettuale, solo quello che poteva ricadere in un accogliente forma di pregiudizio o al più di classificazione, che ne è la forma più ipocrita.
Per amore della verità, i suoi libri più noti (Ragazzi di vita, Una gioventù violenta, ecc..) albergavano in alcuni scaffali della libreria della mia famiglia e le istanze politiche che hanno caratterizzato il suo pensiero, hanno contribuito fortemente alla formazione culturale di mio padre e, per luce riflessa, della mia.
Nonostante mi fosse data la possibilità di un accesso privilegiato, Pasolini veniva accolto nel mio immaginario come cantore della marginalità, di una violenza e ingiustizia senza rimedio e tale connotazione emotiva induceva, all’intimità di adolescente borghese, l’istinto alla fuga. La generazione che ci ha preceduto ha avuto così terrore dei suoi padri, responsabili degli orrori del novecento, da negare ai suoi figli la previsione, la consapevolezza, la capacità di istinto e il timore di una ripetizione che, invero, sembra essere il nostro destino.
Ho incontrato Pasolini soltanto l’estate di due anni fa, davanti al mare, attraverso la grazia di Enrico che gli ha prestato la voce leggendo per me alcuni frammenti tratti dai Dialoghi. Ogni sera al tramonto il libro passava di mano, ci scambiavamo la voce e, davvero, non abbiamo mai smesso.
Ho incontrato il suo lato più intimo, sebbene prestato nella pubblica piazza al responso, come una Sibilla Cumana, uno sciamano a cui la moltitudine accorre per implorare, per adorare o per maledire.
Pasolini mi commuove e davvero non ho altre parole. Suscita in me umanità che è insieme accettazione della miseria e della meraviglia, che mi conduce ad accogliere un uomo venuto a rompere i miei schemi sul nulla, a liberarmi dalla stupidità.
Credo che tutti noi, senza saperlo, si stia attraversando l’esperienza di un lutto profondo, un dolore muto che non ha accesso alla coscienza, non solo perché è morto, non solo perché ce lo hanno strappato, ma perché nessuno ha avuto la forza, il coraggio, la possibilità intellettuale di raccontarci chi era.
Pasolini è morto tante volte nella sua vita, è morto perché diverso, perché inaccettabile dai nemici e non compreso dagli amici. Prima di morire sotto le spranghe, è morto nel chiacchiericcio dei salotti della sinistra, e prima ancora nell’intimità, spesso formale, dei nostri salotti famigliari in cui la diversità si fa sussurro e la tolleranza è spesso un approdo sofferto e, per questo, segno di una presunta superiorità.
E per quanto riguarda la sua eredità, essa sarà negata più che dispersa, fino a quando non avremo il coraggio di dire quanto ci manca, quanto mancherà alle nostre vite, se non sapremo accoglierlo, finalmente, nelle nostre stanze più in ombra, nel mondo di sotto, mondo cui lui, instancabilmente, ha sempre parlato.



lunedì 5 ottobre 2009

Lettera aperta al direttore di un quotidiano di sinistra

(Aprile 2008)
Caro Direttore,
poiché saremo tutti impegnati a comprendere i motivi della sconfitta, conseguenza inattesa di un abbandono massivo dell’elettorato storico, potrebbe essere funzionale considerare un oggetto eccentrico, ovvero le ragioni di chi per la prima volta ha votato la famigerata Sinistra radicale.
Cresciuta in una famiglia impegnata nella costruzione di un progetto facilitato dalla spinta propulsiva del dopoguerra, padre imprenditore e Comunista, madre cattolica e per condizione culturale impossibilitata a superare la sudditanza del ruolo femminile, entrambi cresciuti in famiglie piccolo borghesi, di profilo para-qualunquista quella paterna, e democristiana quella materna, ho imparato ad accettare contraddizioni apparentemente insuperabili.
Invero la contraddizione si è risolta da sé: nell’assumere la responsabilità figliale della loro prospettiva, ho introiettato i valori comuni, ovvero quelli del lavoro, dell’indipendenza e della solidarietà che, via via, confluivano nel PCI, nel PDS e nei DS, disponendomi ad una progressiva resa culturale, almeno fino a quando la degradazione dei principi politici che ne fondavano il senso e la direzione, non è apparsa in tutta la sua attuale estraneità.
Nel 2007 ho seguito Fabio Mussi e Sinistra Democratica in adesione sentita al rifiuto del riformismo che aveva definitivamente eroso l’amore per il mio partito d’origine. Il lutto è parola consona a descrivere quel passaggio che, tuttavia, ancora manca di un approdo compiuto e in cui il sentimento di appartenenza si renda vivo.
In questi anni l’identificazione con la sinistra, con le sue idee di giustizia sociale, di equità, di rivoluzione di un modello economico e sociale votato totalmente al mercato e che ha escluso l’intelligenza della politica nel servire la comunità, ha presentato aree di profonda inconciliabilità laddove, nel contempo, il riformismo integralista ha chiesto tempo, ha rimandato, ha proposto palliativi e compromessi che nel loro perdurare hanno via via sottratto anche la possibilità del rendersi conto della sventura.
Contestualmente la fisiologica dinamica reattiva messa in campo dai diversi soggetti della Sinistra, dagli innumerevoli e forse non così tanto vivificanti movimenti, ha spinto la struttura portante dei valori progressisti nell’alveo della radicalità, che è l’esito di uno spostamento nell’area dell’Altro da sé, di ciò che non può appartenere alla comunità perché a sua volta ha rinunciato a dinamiche di appartenenza e di comprensione. Mentre il PCI era la casa di tutti, la Sinistra è residuo, ciò che rimane, l’esito di un processo metabolico socio-culturale.
In questo clima una come me che non è operaia, non è ultima, non è emarginata, che non conosce la lotta di classe, che non è cresciuta nel conflitto sociale, ha potuto appellarsi solo alla memoria per pensarsi e agire in termini di sinistra. E il tentare di non tradire questo appello interiore dal sapore ultimativo e perciò chiuso nel proprio senso, ha avuto in cambio solo la proposta degli innumerevoli frammenti in cui si specchia la nostra Sinistra divisa, persa nei molteplici distinguo, incapace di una visione unificante per proporsi nel conflitto di dettaglio e perciò fine a se stesso.
Eppure vi ho votato e molti come me o lo avrebbero fatto, con forza, se solo il PDCI avesse smesso di discutere insulsamente sulla falce e martello che ha perso la forza vivificante del simbolo per ridursi a segno, a marchio di mercato agitato da chi vuole avere sempre ragione. E altri lo avebbero fatto se solo Sinistra Democratica avesse deciso senza tentennamenti di confluire prima, dando senso ad un gesto coraggioso. La Sinistra non è morta, solo che è stanca di essere una Cosa Rossa.

Popolazioni in cammino e sublimazione dell’odio

(scritto il 19 giugno 2007)

In base al decreto sul “lavoro regolare” che vedeva le popolazioni rom e sinti fortemente inadempienti, nel 1938 circa 2000 “zingari” o zigeuner, furono deportati a Buchenwald e altri 1.500 a Dachau. Più di un terzo morirono entro il 1939 e nello stesso anno si diede avvio alla deportazione di circa 5.000 donne verso il campo di Ravensbruck. Fu Himmler in persona, il 16 dicembre 1942, a firmare l’ordinanza per il trasferimento immediato dei cosiddetti zigeuner verso il lager di Aushwitz e il 10 agosto 1944 i tedeschi usarono solo due forni crematori per sterminare circa 21.000 persone in una sola notte. Come è ormai ampiamente noto, la cifra complessiva di questo sterminio ammonta per difetto a circa 500.000 persone uccise nei lager o nelle esecuzioni di massa con cui le SS salutavano il loro ingresso nei territori occupati. Ma ciò che è meno conosciuto, e su cui è mancata una riflessione sociologica di merito, è la ratio in base alla quale i nazisti si determinarono ad una specifica soluzione finale per queste popolazioni. Si è già detto della mancanza di un lavoro regolare come movente della prima deportazione di massa, e tuttavia la necessità di uno sterminio sistematico trovò luogo e ragione nell’irrimediabile “asocialità” che caratterizzava il mondo “zingaro” colpevole di sottrarsi alle rigide funzioni normalizzatrici in cui si articolava la società tedesca. Se gli ebrei si erano macchiati di tradimento della madre patria, assolvendo alla proiezione di nemico assoluto nel cui intorno si costellavano le ragioni di un’inferiorità razziale suffragata da delirio scientifico, e se per gli omosessuali si rendeva necessario igienizzare la società tedesca da un’inversione inconciliabile con la norma di natura, per i Rom e i Sinti si trattava di un’incompatibilità con la norma sociale essendo, storicamente, soggetti dediti al nomadismo, al vagabondaggio e pertanto portatori di un’inaccettabile disordine. Per completezza è bene ricordare che in tale ambito l’Italia fascista scimmiottò degnamente, a partire dal 1940, l’alleato tedesco provvedendo a deportare le popolazioni rom e sinti in appositi campi di internamento.
Il nazismo ha rappresentato un esempio emblematico e mostruoso di società disciplinare, modello sociale che si realizza a partire dalla seconda metà del 1700, come magistralmente spiegato da Michel Foucalt in “sorvegliare e punire” (Einaudi). E’ in tale periodo storico, infatti, che si assiste alla nascita della regolazione astratta della società fondata sulla disciplina come corpus di sapere in grado di incatenare le forze individuali (i corpi, le identità, le relazioni e l’agire dei soggetti) per utilizzarle e moltiplicarle nei vari ambiti sociali e in primo luogo nel lavoro produttivo. La società disciplinare “fabbrica” individui regolati, normalizzati da un potere discreto e sospettoso che impone poco a poco le sue procedure, i suoi valori attraverso il flessibile dispositivo del premio/sanzione. Si tratta di un ordine artificiale in cui il controllo, la sorveglianza, e le relative tecnologie di continua osservazione addomesticano l’autonomia soggettiva ad un potere che si fa meccanismo distribuito e permanente. In tale sistema il plagio collettivo può avvenire a condizione di un silenzioso e invisibile addestramento culturale che fonda contenuti condivisi dando forma ad un consenso diffuso e privato di autentiche possibilità di critica. E se nell’Europa della prima metà del novecento, il valore-contenuto inscritto nel processo di apprendimento collettivo si fondava sulla difesa della patria e della razza, nelle società contemporanee sono i cosiddetti valori della cittadinanza e dell’appartenenza (in cui il lavoro assume nuovamente una posizione prioritaria) che assicurano la regolamentazione della molteplicità umana. Accanto a questi valori “positivi” dell’agire sociale, viene poi elaborato e proposto un immaginario negativo specificatamente fondato sulla paura e finalizzato alla difesa collettiva della realizzazione di quegli stessi valori.
Che si tratti di una società orientata alla patria o all’astratto concetto di cittadinanza, è indubbio che l’apolidia dei Rom e Sinti, che storicamente rappresenta la forma di una diaspora che non può avere fine, stante la mancanza di una prospettiva di “ritorno alla terra promessa” che li ha posti fuori dalla possibilità di una dinamica di appartenenza, assoggettandoli all’esclusione per genocidio o a tentativi di integrazione rispondenti alla disciplina sociale in voga al momento.
Si tratta a ben vedere di una diversa gradazione di intensità dell’esclusione che, dispiace ammetterlo, deriva dalla stessa matrice normalizzante.
I valori “positivi” su cui si fonda la nostra costruzione sociale, infatti, presentano indiscutibili analogie: un lavoro regolare, una casa accatastata, un certificato di cittadinanza o di soggiorno, un percorso di istruzione per i bambini, sono i principì di un’integrazione predeterminata che omette il sistema di opportunità che ne permette l’adempimento ma che non dimentica di accompagnarsi ad un immaginario negativo fondato sulla paura e sul suo relativo rimedio, ovvero la sicurezza.
L’imperativo ossessivo sulla necessità di creare un sociale protetto dal disordine nel cui campo di significato cadono facilmente le popolazioni in perpetuo cammino verso un dove accogliente o quanto meno non genocida, connota una continuità culturale che, uscita dalla porta angusta del solenne rifiuto della violenza nazista, è rientrata agilmente dalla finestra dei moderni ordinamenti.
Nella nostra costruzione democratica e formalmente partecipativa, la relazione con ciò che si rappresenta come “diverso dalla norma” ammette pertanto solo la sublimazione dell’odio (e non il suo esercizio diretto) realizzando alternativamente o l’esclusione dal campo delle possibilità regolate o la tolleranza integrante che ne rappresenta il lato buonista e più ipocrita.
A questo proposito il Patto per Roma sicura siglato il 18 maggio del 2007 dal Sindaco di Roma, dal Prefetto e dal Ministro degli Interni ricorre ad un linguaggio coerente con questa dinamica adottando letteralmente la necessità di “interventi risolutivi delle esigenze di contenimento delle popolazioni senza territorio”, nonché “l’inclusione sociale attraverso la costruzione di quattro villaggi della solidarietà .. disciplinati da specifici regolamenti di gestione”.
E’ decisamente arduo rintracciare il senso di una convivenza, nella stessa frase, di termini come contenimento, inclusione e solidarietà e comprendere quale fra questi sia più adatto alla sublimazione dell’odio per inadempimento alla norma sociale e ancora quale sia il più coerente a rappresentare le decine di sgomberi che hanno colpito i campi nomadi romani in questo 2007 a monte di villaggi solidali di là da venire. Si rappresenta desolatamente una società terrorizzata che individua una specifica soluzione finale di rigetto dell’anormalità verso un altrove lontano, una società perfettamente disciplinante e tuttavia incapace di elaborare la paura, una società che si è chiusa dentro, gettando le chiavi al disordine escluso.

I Rom non sono cose (2007)

Con l’effetto sorpresa tipico delle blitzkrieg, in pochi mesi la prefettura di Roma ha dato il via e ha portato efficientemente a termine gli sgomberi dei campi nomadi di Tor Pagnotta, via Scalo Tiburtino, Aniene, Tor Cervara, Ponte Mammolo, via dell’Imbrecciata, Castel di Guido e Saxa Rubra, Campo Boario, Villa Troili. Luoghi di baracche e container vetusti e inclini all’incendio, luoghi di stoccaggio di esseri umani trattati come bestie di uno zoo dismesso, di un circo in disuso, recinti abusivi per cani allo sbando. Centinaia di uomini, donne, vecchi e bambini sono stati sgomberati come cose da buttare, allontanati a forza di ruspe e ordinanze, gettati per sempre e il più lontano possibile, non importa dove purché in quel lontano astratto e solo immaginato dalle Istituzioni piegate nell’affanno di rendere ordinata e pulita la nostra città.
Le ruspe del Comune hanno rivoltato nel fango i diritti umani più elementari per fare parchi giochi, parcheggi o semplicemente per zittire i lamenti dei quartieri periferici che nel degrado di quei campi hanno proiettato il sentimento rancoroso di vedere se stessi ai margini, dimenticati al confine dell’incuria politica. Nelle dichiarazioni della giunta Veltroni si assicura che le “cose sgomberate” sono state sottratte al degrado e al disagio, disegnando per questo materiale umano di risulta un progetto di delocalizzazione articolata sulle province. 175 unità movimentate in ciascuna provincia del Lazio che prontamente hanno rifiutato la disponibilità a siti di discarica perché con i nomadi non si guadagna, trattandosi di materiale avverso alla normodegradabilità e, per di più, non reciclabile. Perché lo zingaro, usando il sostantivo appena sussurrato con cui si da forma al razzismo diffuso, resiste. Dal 1400 la popolazione Rom e Sinti vive in Europa e adattandosi progressivamente all’impossibilità di fuga, sottomessa ad una regolazione normativa finalizzata alla pulizia etnica per assimilazione, ha rinunciato al nomadismo, all’attraversamento temporaneo dei territori, sistemandosi nel limbo metropolitano, dove l’urbanistica ha da sempre collocato i manicomi, le carceri, i punti di snodo delle tangenziali. Lì vivono gli zingari e i bambini, spesso nati in Italia, ogni mattina vengono caricati sui pulmini del Comune per la frequenza scolastica per poi, al compimento del diciottesimo anno essere mandati nei Cpt perché nessuno, nel frattempo, gli ha riconosciuto il permesso di restare come cittadini, come persone. E in questi giorni ci si appella all’insostenibilità, all’”emergenza Rom”, avendo questi ormai raggiunto la spropositata quota di 20.000 unità a Roma. Facendo due conti è come se ciascun cittadino portasse addosso lo 0,006 di unità di Rom. L’insostenibilità è evidentemente nei numeri. Per questo il silenzio è calato sulla vicenda e gran parte dei giornali si limitano a registrare sommessi gli eventi, accettando il ripiego di fare il verso ai declami istituzionali. Per questo la Sinistra, di cui si è perso traccia come un oggetto risucchiato nel metafisico linguistico, non ne parla, non si indigna, non va in piazza. Per questo gli sgomberi continueranno, le cose senza luogo si sparpaglieranno in altri avanzi di spazio, a mano a mano che la città si aprirà verso nuove distanze fatte di ponti, cimiteri e accampamenti di fantasmi.

Milka e Bogdan: il giorno dell'amnesia (Aprile 2007)

Milka ha 85 anni. Il 3 aprile 2007, al campo nomadi di Testaccio, il Campo Boario, davanti al balletto dei vigili urbani, davanti ai gipponi e alle volanti della polizia venuti per sgomberare 90 famiglie, per ripulire dal disordine e dare spazio al decoro urbano, si è sentita male. L’hanno portata in ospedale per consolarla di aver perso l’ultima casa, per rincuorarla di non avere più un posto dove andare. Anche Bogdan è vecchio, vecchio di tutti gli anni attraversati al margine, lasciati al confino insieme alla sua gente, i Kaldarascia, Rom italiani, zingari se preferite; ma Bogdan è anche vecchio di persecuzioni e genocidi ormai ben riposti al caldo della nostra coscienza, perché Noi non siamo nazisti e sopra ogni cosa Noi non siamo razzisti.
Milka e Bogdan hanno conosciuto l’internamento e lo sterminio all’italiana di stampo artigianale: durante il fascismo sono stati internati nel campo di concentramento di Agnone, un paesino arroccato sulle montagne del Molise, adibito a disinfestare il mondo dagli zingari a furia di minestra rancida di vermi.
Esattamente due anni fa, nell’aprile 2005, il rito della memoria si è reso finalmente urgente nelle scuse pronunciate dal Sindaco di Agnone: “io chiedo scusa a Milka, a Tomo Bogdan. .. Ci sono silenzi che pesano sul popolo di Agnone. Lo abbiamo capito tardi, ma oggi la cittadinanza vuole chiedere scusa”.
Nel 1940, Milka viveva a Pisa accampata in un prato con la sua gente che lavorava il rame. Un giorno d’estate sono stati prelevati dai carabinieri che, per convincerli, gli hanno detto che sarebbero andati a vivere in un posto migliore.
Per quello strano vizio che ha la storia di ripetersi e di cui solo i vecchi fra i più vecchi sanno accorgersi, anche i Vigili urbani le hanno detto la stessa cosa.
Ma ieri quello era il giorno dell’amnesia, non della memoria, e nel nostro mondo ordinato e sicuro c’è spazio per una cosa alla volta.
Per amore della verità, Milka e Bogdan hanno ricevuto la proposta di una casa, qualche tempo fa. Ma si sa come sono i vecchi zingari che, anche a costo di passare per ingrati, non lasciano la famiglia, il campo che ti entra nelle ossa.
Campo Boario è occupato da 25 anni dai Kaldarascia, Rom italiani, sempre zingari per carità, anche se hanno frequentato le nostre scuole e le nostre caserme per la leva obbligatoria; vivono in grandi roulotte sistemate come villette a schiera e da secoli lavorano il metallo o restaurano statue sacre, casa e bottega tutto lì al Campo Boario, sviluppando una microeconomia millenaria, divelta, nel nostro mondo, dalle ondate del liberismo e centri commerciali, e costretta a rifugiarsi nell’altra economia di tendenza.
Infatti a campo Boario hanno sgomerato Milka e Bogdan e le altre 90 famiglie di Rom Italiani, comunque zingari, per fare spazio al progetto di riqualificazione di Testaccio, al cantiere dell’Altra Economia, al mercato equo e solidale (soprattutto solidale), e le coincidenze di nuovo si rincorrono, purché una alla volta.
Campo Boario poi, è solo l’ennesimo sgombero di massa: negli ultimi tre mesi ci sono stati gli sgomberi dei campi di Villa Troili, Tor Pagnotta, via Scalo Tiburtino, Aniene, Tor Cervara e Saxa Rubra e chssà dove finiranno sgomberati proprio i Rom di Campo Boario in questa movimentazione improvvisata, da magazzino di fine serie, logistica per persone di risulta, inaccettabili per la politica di decoro urbano tanto in voga nella gestione Veltroni.
La questione, suo malgrado, è ancora appesa. Perché le cose sgomberate non hanno ancora una collocazione. Non si sa davvero dove metterle, come riciclarle, dove appoggiarle. E se domani Milka e Bogdan dovessero partecipare ad una giornata della memoria come faremo? Se nel frattempo si fossero risparpagliati fuori le mura come potremo riportarli in gita ad Agnone? Perché noi non siamo razzisti, noi siamo quelli della maratona di Roma e alla memoria teniamo moltissimo.

La Cosa Berlusconi

di Josè Saramago
Pubblicato da El País il 6 giugno 2009 (traduzione non ufficiale di Mt@)

Non vedo che altro nome potrei dargli. Una cosa pericolosamente simile ad un essere umano, una cosa che dà feste, organizza orge e comanda in un paese chiamato Italia. Questa cosa, questa malattia, questo virus minaccia di essere la causa della morte morale della patria di Verdi se un rigetto profondo non irromperà nella coscienza degli italiani prima che il veleno smetta di corromperne le vene massacrando il cuore di una delle più ricche culture europee. I valori fondamentali della convivenza umana sono calpestati tutti i giorni dalle zampe viscose della cosa Berlusconi che, fra i suoi molteplici talenti, ha anche l’abilità funambolesca di abusare delle parole, pervertendone l’intenzione e il sentimento, come nel caso del Popolo delle Libertà, che così si chiama il partito con il quale è salito al potere. L’ho chiamata delinquente questa cosa e non me ne pento. Per ragioni di natura semantica e sociale che altri potranno spiegare meglio di me, il termine delinquente ha in Italia una connotazione negativa molto più forte che in qualunque altro idioma europeo. Per tradurre in forma chiara e incisiva quello che penso della cosa Berlusconi utilizzo il termine delinquente nell’usuale accezione utilizzata dalla lingua di Dante, sebbene sia dubbio il fatto che Dante lo abbia mai usato. Delinquenza, nel mio portoghese, significa in accordo con il dizionario e con la prassi corrente della comunicazione, “atto di commettere delitti, di disobbedire alle leggi o ai principi morali”. La definizione si inscrive alla cosa Berlusconi senza una piega fino al punto di sembrare una seconda pelle come l’abito che si indossa. Da molti anni la cosa Berlusconi sta commettendo reati di varia e tuttavia sempre dimostrata gravità. Paradossalmente non è che disobbedisca alle leggi se non che, ancora peggio, ordina di emanarle ai fini della tutela dei suoi interessi pubblici e privati di politico, imprenditore e accompagnatore di minorenni, e per quanto riguarda i principi morali, non vale la pena parlarne, non c’è nessuno in Italia e nel mondo che non sappia che la cosa Berlusconi è caduta
da molto tempo nella più assoluta abiezione. Questo è il Primo Ministro italiano, questa è la cosa che il popolo Italiano per due volte ha eletto perché gli serva da modello, questo è la strada per la rovina visto che, per trascinamento, si stanno via via eliminando i valori di libertà e dignità che hanno impregnato la musica di Verdi e l’azione politica di Garibaldi, quelli che fecero dell’italia del secolo XIX, durante la lotta per l’unificazione, una guida spirituale dell’Europa e degli europei. Questo è ciò che la cosa Berlusconi vuole buttare al secchio della spazzatura della storia. Smetteranno di permetterlo gli Italiani?