lunedì 5 ottobre 2009

Popolazioni in cammino e sublimazione dell’odio

(scritto il 19 giugno 2007)

In base al decreto sul “lavoro regolare” che vedeva le popolazioni rom e sinti fortemente inadempienti, nel 1938 circa 2000 “zingari” o zigeuner, furono deportati a Buchenwald e altri 1.500 a Dachau. Più di un terzo morirono entro il 1939 e nello stesso anno si diede avvio alla deportazione di circa 5.000 donne verso il campo di Ravensbruck. Fu Himmler in persona, il 16 dicembre 1942, a firmare l’ordinanza per il trasferimento immediato dei cosiddetti zigeuner verso il lager di Aushwitz e il 10 agosto 1944 i tedeschi usarono solo due forni crematori per sterminare circa 21.000 persone in una sola notte. Come è ormai ampiamente noto, la cifra complessiva di questo sterminio ammonta per difetto a circa 500.000 persone uccise nei lager o nelle esecuzioni di massa con cui le SS salutavano il loro ingresso nei territori occupati. Ma ciò che è meno conosciuto, e su cui è mancata una riflessione sociologica di merito, è la ratio in base alla quale i nazisti si determinarono ad una specifica soluzione finale per queste popolazioni. Si è già detto della mancanza di un lavoro regolare come movente della prima deportazione di massa, e tuttavia la necessità di uno sterminio sistematico trovò luogo e ragione nell’irrimediabile “asocialità” che caratterizzava il mondo “zingaro” colpevole di sottrarsi alle rigide funzioni normalizzatrici in cui si articolava la società tedesca. Se gli ebrei si erano macchiati di tradimento della madre patria, assolvendo alla proiezione di nemico assoluto nel cui intorno si costellavano le ragioni di un’inferiorità razziale suffragata da delirio scientifico, e se per gli omosessuali si rendeva necessario igienizzare la società tedesca da un’inversione inconciliabile con la norma di natura, per i Rom e i Sinti si trattava di un’incompatibilità con la norma sociale essendo, storicamente, soggetti dediti al nomadismo, al vagabondaggio e pertanto portatori di un’inaccettabile disordine. Per completezza è bene ricordare che in tale ambito l’Italia fascista scimmiottò degnamente, a partire dal 1940, l’alleato tedesco provvedendo a deportare le popolazioni rom e sinti in appositi campi di internamento.
Il nazismo ha rappresentato un esempio emblematico e mostruoso di società disciplinare, modello sociale che si realizza a partire dalla seconda metà del 1700, come magistralmente spiegato da Michel Foucalt in “sorvegliare e punire” (Einaudi). E’ in tale periodo storico, infatti, che si assiste alla nascita della regolazione astratta della società fondata sulla disciplina come corpus di sapere in grado di incatenare le forze individuali (i corpi, le identità, le relazioni e l’agire dei soggetti) per utilizzarle e moltiplicarle nei vari ambiti sociali e in primo luogo nel lavoro produttivo. La società disciplinare “fabbrica” individui regolati, normalizzati da un potere discreto e sospettoso che impone poco a poco le sue procedure, i suoi valori attraverso il flessibile dispositivo del premio/sanzione. Si tratta di un ordine artificiale in cui il controllo, la sorveglianza, e le relative tecnologie di continua osservazione addomesticano l’autonomia soggettiva ad un potere che si fa meccanismo distribuito e permanente. In tale sistema il plagio collettivo può avvenire a condizione di un silenzioso e invisibile addestramento culturale che fonda contenuti condivisi dando forma ad un consenso diffuso e privato di autentiche possibilità di critica. E se nell’Europa della prima metà del novecento, il valore-contenuto inscritto nel processo di apprendimento collettivo si fondava sulla difesa della patria e della razza, nelle società contemporanee sono i cosiddetti valori della cittadinanza e dell’appartenenza (in cui il lavoro assume nuovamente una posizione prioritaria) che assicurano la regolamentazione della molteplicità umana. Accanto a questi valori “positivi” dell’agire sociale, viene poi elaborato e proposto un immaginario negativo specificatamente fondato sulla paura e finalizzato alla difesa collettiva della realizzazione di quegli stessi valori.
Che si tratti di una società orientata alla patria o all’astratto concetto di cittadinanza, è indubbio che l’apolidia dei Rom e Sinti, che storicamente rappresenta la forma di una diaspora che non può avere fine, stante la mancanza di una prospettiva di “ritorno alla terra promessa” che li ha posti fuori dalla possibilità di una dinamica di appartenenza, assoggettandoli all’esclusione per genocidio o a tentativi di integrazione rispondenti alla disciplina sociale in voga al momento.
Si tratta a ben vedere di una diversa gradazione di intensità dell’esclusione che, dispiace ammetterlo, deriva dalla stessa matrice normalizzante.
I valori “positivi” su cui si fonda la nostra costruzione sociale, infatti, presentano indiscutibili analogie: un lavoro regolare, una casa accatastata, un certificato di cittadinanza o di soggiorno, un percorso di istruzione per i bambini, sono i principì di un’integrazione predeterminata che omette il sistema di opportunità che ne permette l’adempimento ma che non dimentica di accompagnarsi ad un immaginario negativo fondato sulla paura e sul suo relativo rimedio, ovvero la sicurezza.
L’imperativo ossessivo sulla necessità di creare un sociale protetto dal disordine nel cui campo di significato cadono facilmente le popolazioni in perpetuo cammino verso un dove accogliente o quanto meno non genocida, connota una continuità culturale che, uscita dalla porta angusta del solenne rifiuto della violenza nazista, è rientrata agilmente dalla finestra dei moderni ordinamenti.
Nella nostra costruzione democratica e formalmente partecipativa, la relazione con ciò che si rappresenta come “diverso dalla norma” ammette pertanto solo la sublimazione dell’odio (e non il suo esercizio diretto) realizzando alternativamente o l’esclusione dal campo delle possibilità regolate o la tolleranza integrante che ne rappresenta il lato buonista e più ipocrita.
A questo proposito il Patto per Roma sicura siglato il 18 maggio del 2007 dal Sindaco di Roma, dal Prefetto e dal Ministro degli Interni ricorre ad un linguaggio coerente con questa dinamica adottando letteralmente la necessità di “interventi risolutivi delle esigenze di contenimento delle popolazioni senza territorio”, nonché “l’inclusione sociale attraverso la costruzione di quattro villaggi della solidarietà .. disciplinati da specifici regolamenti di gestione”.
E’ decisamente arduo rintracciare il senso di una convivenza, nella stessa frase, di termini come contenimento, inclusione e solidarietà e comprendere quale fra questi sia più adatto alla sublimazione dell’odio per inadempimento alla norma sociale e ancora quale sia il più coerente a rappresentare le decine di sgomberi che hanno colpito i campi nomadi romani in questo 2007 a monte di villaggi solidali di là da venire. Si rappresenta desolatamente una società terrorizzata che individua una specifica soluzione finale di rigetto dell’anormalità verso un altrove lontano, una società perfettamente disciplinante e tuttavia incapace di elaborare la paura, una società che si è chiusa dentro, gettando le chiavi al disordine escluso.

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