domenica 26 agosto 2012

Il collezionista di frasi

  Colleziono frasi, ragionamenti umani, soprattutto i più infimi, quelli che non si curano di far mal al mondo  per il peso delle loro mancanze, che si annunciano da una poltrona la sera di capodanno nell’usanza umana di raggrupparsi intorno ad un punto di mezzo nel tempo, quei pensieri che si riflettono nell’approvazione della tribù, anch’essa stipata nel salotto caldo di un palazzo infilato in un quartiere politicamente impegnato, dove la gravità delle idee si sospende, e vagola in cerca di un punto di appoggio.
  Raccolgo dimostrazioni vuote, argomentazioni irrisorie, dissertazioni abbandonate come conchiglie, eco di vita rinchiusa in forme bizzarre, esalazione di mare morto, nella gioia segreta del collezionista davanti all’ultimo gioiello della sua collana.
  E’ un vizio, mi imbriglio, mi arrovello per giorni infatuato da quel raziocinio meschino, dalla logica perfettamente tradita, dalla presunzione che chiude il pensiero in un’impossibilità, nella meraviglia di osservarne l’intenzione in controluce e capire, finalmente placato, che la luce non l’ha mai attraversata.
E’ l’ultimo pezzo mi dico, ma so di mentire, e dal mio angolo in ombra aspetto il prossimo guizzo, il sussulto della creatura quando viene al mondo, e se non ci fossi io a raccoglierne il primo respiro, cadrebbe per sempre nel senso comune, un’altra perla vuota gettata ai soliti porci.
   E’ macabro il mio vizio, lo so bene, ma non posso farne a meno.
  Di quest’ultima preda sono felice, è un pezzo unico, un’entità straordinaria, numinosa, spaventevole, che mi lascia esausto nel lavorio di registrarne la potenza terribile, capace di per se stessa di succhiarsi il tempo, di profanare la narrazione umana, lo sforzo delle generazioni di sottrarsi all’oblio.
  E nella mia inesauribile mania rivivo per giorni l’istante in cui si è annunciata, la sua capacità di far tacere l’uditorio, quell’agglomerato di coscienze disabituate al dovere di rispondere, riunite in un salotto caldo infilato nel palazzo di un quartiere politicamente impegnato, nell’infimo buco di tempo di una festa comandata.
   Ah che meraviglia, ancora godo. 
  Non mi passa questa gioia perversa rimirando l’ultima conquista, una frontiera sul nulla, non ce ne sarà nessuna come lei, la sorgente si è esaurita, l’ultima creatura è ben conservata nelle mie stive, al riparo dai bambini, dall’innocenza, dall’ironia, dall’intelligenza, dalle idee, quelle maledette, e da tutti quegli agenti capaci di degradarne la perfezione mortifera.
  E così ve la posso sibilare quella frase, ve la bisbiglio sapendo che nulla potrete contro di lei, che assisterete alla morte della vostra ombra, lei vi ha cagato sulla storia, quella che chiamate la vostra nel gesto stanco di guardare un possedimento inutile, erba che non cresce, terra mai curata, mai benedetta dallo sforzo, mai sofferta  seduti in  poltrona in un caldo salotto. 
 Sedetevi, respirate, chiudete le finestre, fatevi tutti i segni con cui spergiurate sulla vostra umanità, questa frase l’ha detta una donna. Una di quelle impegnate, colte, raffinate, che non importa più che siano brutte, tanto sono intelligenti, e talmente paurosamente intelligenti che nessuno osa rispondere quando dal grembo arido generano il disonore di essersi ridotte a misere liberte, e mai, dico mai, una carezza, una parola, il conforto umano, la pietà di dirle che sta sparando una cazzata, che se quella frase avesse l’impudenza di incarnarsi, la vedremmo con noncuranza grattarsi il culo in pubblico, e tutti a far finta di nulla.
   Va be’ le prudeva.
  E il fatto che sia stata una donna a partorire l’ultimo compiuto scempio per la mia ricca serie, non è un dettaglio trascurabile. D’altronde qualunque rivoluzione partorisce mostri e l’imbecillità pensante declinata al femminile è conseguenza inattesa con cui l’umanità sembra aver fatto i conti, rappresentandosi, peraltro, come mero fattore aggiuntivo a quella maschile, di ben più lunga tradizione.
   Siete sulle spine, lo so.
  Adesso avete voglia, magari siete corsi in fondo per scovare l’arcano, non resistete, fate gli indifferenti e vi prude l’animaccia, volete chiudere la pagina, lasciare questo luogo, bestemmiare, fate voi. 
  Adesso ve la dico.
  La frase, pronunciata fra la morbidezza di una poltrona, in un salotto caldo, nel palazzo di un quartiere politicamente impegnato, nel buco di tempo dell’ultimo capodanno, a.d. 2009 d.c. secondo la nostra moderata consuetudine, precipitata in un soffio di fiato ben meditato dalla bocca di una donna emancipata, colta, lavoratrice, sufficientemente sfatta dai giorni di festa, nello stomaco le lenticchie e il panettone, due bicchieri di spumante, la memoria impressa dai fuochi d’artificio, l’ultimo bacio di rito al fidanzato troppo noioso per avere diritto ad appartenere ai sapiens in senso stretto, davanti alla sua tribù, anch’essa sparsa e raccolta in poltrona e divano, nello stesso salotto, nella stessa vita, più informe di lei per incapacità dell’osservatore di registrare contemporaneamente la molteplicità dei dettagli, amorfa, incapace di reagire, di risvegliarsi, di sobbalzare all’annuncio dello straordinario irripetibile, del brutto assoluto, la frase dicevo, prima che voi diventaste troppo impazienti anche per me, che merito quanto meno gratitudine per la prudenza con cui vi conduco, per la premura con cui vi avvolgo nelle mie danze, è questa:
“La gente non capisce che non si possono più usare le categorie del ‘900”.
  La scrivo piccola piccola perché non si deve rovinare. L’aria le fa male, bisogna bisbigliarla fra le labbra per non perderla, delicatissima essenza, se ci si ragiona sopra anche solo per un momento cercando di scovarne il senso, magari nascosto fra le pieghe dell’implicito, si depaupera la sua formula alchemica, il suo vuoto di vuoto, il precipitato per precipitare, il suo perpetuo ritornare a se stessa, la vanità d’essere imperitura, per sempre liberata dall’afflizione dell’intelligenza che da tempo ha abbandonato gran parte delle terre abitate.
  Bene adesso che quella gente siete voi, quella gente che non capisce, che non capisce che non si possono più usare le categorie del ‘900, non vi dovete domandare, è inutile. Non c’è più rimedio.  Quel che è fatto è fatto.
  Non affannatevi vanamente a pietire di sapere, da quando? Dal 31 dicembre 1999? O dal 1° gennaio 2000? Che importanza può avere il momento esatto in cui è finito il ‘900 portando ad esaurimento, dio sa come, tutte, dico tutte le categorie in uso fino a quel momento?
Non protestate se l’informazione è stata data con un certo ritardo il 31 dicembre 2009 (ma forse era già il 1° gennaio 2010): l’umanità per quasi 10 anni le ha ancora usate per forza inerziale del movimento di massa, la cui natura, rispondendo a principi fisici e non categorici, le permette di scampare alla sciagura della fine delle categorie di qualunque secolo, figurarsi quelle del ‘900.
  E non piangete.  
  Soprattutto non piangete sul latte versato, non piagnucolate sull’esistenzialismo, non abbandonatevi al rimpianto di Picasso e di Dalì, non stracciatevi le vesti nel rimorso per la fine delle avanguardie, non frignate su Heidegger, su Foucault e su Pasolini, e cercate di non vivere nel rimpianto della scuola di Francoforte che, come si è visto, a nulla è servita. E ancora non doletevi per il cinema muto, per Ejzenstejn, per il neorealismo, per Fellini, e pentitevi se avete creduto, in senso lato, alle idee politiche che una dopo l’altra si sono affacciate sul davanzale del ‘900 a guardare intimidite il panorama, cadendo immancabilmente di sotto, per la verità. 
  Qualunque appiglio sarà vano. Le categorie, ricomprendendo in esse i sinonimi con cui i Più allegramente confondono significati diversi, e determinando in quelle del ‘900, secolo della loro dipartita senza consolazione, indifferentemente quelle della filosofia, della politica, delle ideologie, dell’arte, della letteratura e della storia che dovrebbe contenerle se non si fosse messa in sciopero all’annuncio della definitiva chiusura della fabbrica, NON si devono più usare.
  Non ridete. 
  Ridere è uno sbotto dell’anima, non dipende da voi.
  A voi è dato di pensare, di rispondere, di non farvi fregare, come al solito e ben prima del ‘900, dalla frase fatta formulata con la stessa noncuranza con cui la signora emancipata si accingerà a capare le fave nei prossimi giorni di pasqua, in un'altra poltrona, magari in un prato politicamente impegnato, distribuendo a pioggia miracolose cazzate sulla vostra esistenza.

lunedì 14 maggio 2012

I nostri vecchi


Questa mattina andando in ufficio sono passata per la strada del mercato. Le bancarelle si stagliavano al sole e il vento soffiava leggero la promessa di una primavera incipiente.
Sul lato del mercato, a ridosso del marciapiede, una vecchietta piccola piccola, nascosta sotto un cappellino liso, rovistava con pazienza nei rifiuti, raccattando fogliame di cicoria, qualche costa di bieta, due mele ammaccate.
Si sporgeva, lei piccola piccola, sul bordo del cassonetto, allungando le mani scarne a prendere sacchetti per la cernita di cibo ancora buono.
Quello che non andava bene lo riponeva al suo posto, richiudendo il sacchetto di plastica in modo da non sporcare.
Abbiamo perso la dignità, questo è ciò che infine posso dire.
Un paese che non si cura dei suoi vecchi è morto, un paese abitato da anime maledette.

mercoledì 21 marzo 2012

Il tempo nelle cose



La vedo ancora, come fosse adesso, rannicchiata nel terrore che l’aveva ridotta ad aggrapparsi a se stessa, a quel poco che rimaneva di lei, una cosa piccola e bianca, smarrita tra lenzuola sgualcite dove improvvisamente si era ritirata la sua vita.
Il mondo si era ridotto allo spazio angusto di una zattera e rimaneva poco da fare a parte dondolarsi nel tempo.
E’ successo anche questo, diceva, e per cercare un senso si guardava le mani, portandole al volto per specchiarsi attraverso.
Nel vano tentativo di scampare alla sciagura si era trascinata nel letto tutto ciò che poteva e poi, alla chetichella, molte altre cose l’avevano raggiunta a ricordarle che aveva pur sempre una storia, a meno che non si voglia pensare che anche le cose, nonostante siano notoriamente più libere dei gatti, provino una qualche forma di nostalgia. L’inevitabile e il necessario, alla fine, si erano radunati ciascuno a proprio modo: belletti per il viso, pinze per i capelli destinati a cadere, i fogli di lavoro, l’agenda per gli appuntamenti mancati e tutti i sospiri di cui era capace. 
Per darmi in qualche modo da fare, mi rendevo utile raccogliendo le cose che quasi per dispetto andavano sparpagliandosi, osservandole rimanere ben raccolte sul comodino, costrette per poco tempo le une alle altre dal mio capriccio, per poi arrendersi all’abitudine e al desiderio di confondersi con lei. 
Fra noi le parole avevano preso ad animarsi pigramente, quasi a scoprirsi inesperte, come divenute incapaci di accompagnare  i gesti occupati nella danza del cercare le cose.
Sapevo che l’avrei vista scivolare via proprio quando avesse smesso di lottare contro lo scompiglio e come il caos operasse silenziosamente per trattenerla, e così, per aiutare quelle strane preghiere mi impegnavo a mantenere le cose sempre un po’ precarie, perché l’ordine non prendesse il sopravvento. Vedevo in lei la vita farsi scarna, magra di visioni, di sogni e, cosa per me davvero strana, indifferente al ricordare, mentre i pensieri continuavano a rotolarsi su se stessi così come faceva il corpo alla ricerca di sollievo. 
Un giorno è andata via, credo fosse stanca di rimuginare il tempo a rincorrere le cose, sfuggendo all’idea di svanire. 






Dicembre 2004

venerdì 9 marzo 2012

8 marzo, il giorno dopo

  
Quel giorno sembrava un giorno qualunque. Uno di quelli che al più rimangono vanamente imbrigliati nel calendario, a fare numero appunto, e nulla induceva il presentimento di un mutamento di corso, una deriva degli eventi che fino a quel momento sembravano dipanarsi senza troppi scossoni. Puntualmente l’apparenza ingannava e nel fiorire di un istante preciso, né un momento prima né uno dopo, la città precipitò nello stupore di una circostanza inattesa. Dal piano inclinato su cui si erano imprudentemente sistemati, gli avvenimenti precipitarono e una fiumana di donne tracimò dai vicoli e dalle vie maestre, in un inesorabile stiparsi di corpi che lentamente si sistemarono alla meglio nel fondo della piazza grande, riversandosi in ogni spazio rimasto, finché tutto fu colmo.
  Fu un unanime moto di volontà, un coro di istanze fino ad allora inespresse a tradursi nel mondo come un fatto compiuto, annunciando la resa dei conti.

La gente ancora racconta di averle viste scendere in piazza, allegre e leggere del peso di poche cose riposte alla rinfusa nei sacchi e nelle valige impolverate, mentre dalle case si udiva ancora lo sbattere di armadi e di cassetti da cui volavano gli abiti da sera, i completi di pizzo e tutto quello che non sarebbe in ogni caso servito. 
Le videro abbandonare al disordine i luoghi e le abitudini, lasciando cadere un ultimo bacio sulla testa dei figli, rincorse dagli insulti dei mariti, licenziate dai datori di lavoro, ripudiate dai padri e dai fratelli e, come se ciò non bastasse, rifiutate da ogni chiesa, da ogni fede e appartenenza religiosa, sicché fossero ben certe che anche ciò che stava ai piedi del Celeste avrebbe voltato loro le spalle. E si può ben comprendere come nessuno immaginava che anche il tempo si sarebbe gradualmente sospeso, incapace di proseguire la sua strada come invaghito da una protesta che finì con il richiamare l’attenzione generale e i particolari giudizi, separandoli equamente in due argini, di qua quelli in accordo, di là quelli contrari. 
Fu forse la loro allegra  indifferenza a convincere il tempo a mettersi dalla loro parte: quel giorno scesero in piazza armate di un'idea sovversiva, determinate a far cadere in disuso molte fra le innumerevoli convinzioni a cui, da qualche millennio, l'umanitá riferiva la propria visione del mondo. 

Quell’unica piccola idea era, a dire il vero, senza malizia: un’idea giovane e dalla sorte incerta che affacciandosi per la prima volta sulle loro vite, le induceva a rompere l’equilibrio di conquiste recenti e di cui presagivano, per l’insorgere di nuove inquietudini, il senso incompiuto.
Per alcune di loro, il tumulto delle battaglie appena recuperate al consenso (se all’appena si concede il contare trent’anni), ancora riecheggiava nei discorsi di frontiera, nella marginalità del rimpianto per un’aspirazione a cui erano mancate le coincidenze più del talento, e nel senso di perdita che sempre accompagna il coniugarsi dei sogni al tempo presente: tornando da poco lontano, l’estremo e lo straordinario ripresero posto, precipitando su un’idea irriducibile.
Semplicemente le donne erano stanche del disegno di dio.
Come se ciò non bastasse, le sciagurate giunsero a pensare che il disegno di dio fosse addirittura sbagliato, e che nella lunga sopportazione di questa anomalia risiedesse la causa del permanere di un disagio che nessun progresso compiuto sembrava lenire.
Non si è conservato memoria, viste le circostanze improvvise, di chi fu la prima fra loro a far accomodare l’idea che, evidentemente, fu in qualche modo contenta di prendere forma. Ciò che si sa con certezza è che l’idea si annunciò in un sussurro che passò di bocca in bocca, arrivò a far ridere di sorpresa e a far piangere di paura e  come una febbre si trasmise di vita in vita. Fu in questo modo che accadde quel giorno: le donne scesero in piazza per raccogliersi intorno a un’idea venuta per caso.

Fortunatamente la maggior parte delle donne della cittá non furono colpite dalla stessa sventura e per questo cercarono di mantenere salde le abitudini e un atteggiamento di cauto distacco nei confronti di sentimenti collettivi ormai inevitabilmente votati alla tragedia.
Certo non si ritirarono nell’indifferenza: al contrario passavano gran parte del tempo a osservare di soppiatto quanto stava accadendo e una siffatta condotta di intermittente distrazione insospettiva i padri, i fratelli e i mariti sull’evenienza di un loro imminente contagio. Come era nelle attese e per il fatto di essere sempre a portata di mano, esse incarnarono la colpa più dell’innocenza e per questo si rinchiusero giorno dopo giorno in un silenzio ambivalente, pietoso verso gli uni e solidale verso le altre. Molte di loro, rallegrate da buoni presentimenti, continuarono a sfaccendare come sempre intorno alle cose e all’umanità, perchè la fine del mondo non fa passare la fame né tanto meno sospende il perpetuo vagare della polvere da un mobile all’altro. E poi a dirla tutta erano decenni che non succedeva nulla, che la sorte non tramava una sorpresa, il pericolo era sempre scongiurato, e una protesta senza un vero nemico, nonostante il giusto sdegno dell’Altissimo, avrebbe almeno portato una ventata d’aria fresca.

I primi tempi trascorsero nella ripetizione. Un via vai di parenti e di amici accorreva ai bordi della piazza e, riconoscendone una o un gruppo quando la sorte era stata più crudele, si spingeva verso quella o quest’altra delle Sue, domandando del ritorno, del come e del perché.  Lente processioni d’anime si insinuavano fra le donne accampate, aprendo varchi a fatica fra corpi sospinti e altri che facevano posto, e nel tumultuoso avvistamento delle congiunte sparpagliate a casaccio, le correnti perdevano senso, ed era tutto un richiamo, un levarsi di mani per facilitare l’incontro. Quella povera gente educata al senso dell’ordine e alla trama di regole che spartisce equamente lo spazio quando questo scarseggia, esperiva la stranezza del liberarsi nella moltitudine, come uno stormo di pinguini adunati su uno scoglio durante la stagione degli amori. Nell’incapacità di arrendersi all’evidenza, si prostravano tutti nel cercare di capire, pietendo risposte ragionevoli e ponendo la buona volontà su quel binario morto che conduce inevitabilmente allo sfinimento generale. Nessuno riusciva a capire la ragione di quel malcontento nonostante le interpellate non lesinassero i dovuti chiarimenti, dichiarando semplicemente che erano stanche del disegno di dio e che in tale astrazione si coagulava il significato di un agire necessario e per questo sufficiente a se stesso.
Al mostrarsi di quello che ai più sembrava un ragionamento delirante, si ricordava che non si era più negli anni ’70 e che le donne da tempo erano libere del fare e del disfare, accompagnando le esclamazioni di tali verità con lo sbracciarsi dei corpi e l’agitazione dei piedi  quasi che il movimento, per quanto scomposto, potesse favorire il ritorno alla ragione.
Si sbandierava il richiamo a dare conto di un comportamento senza logica, evocando antichi timori e la iattura di scivolare in visioni irrazionali, perché se puta caso dio avesse sbagliato, non si capiva cosa ci si potesse fare, vista la difficoltà a convincere dio a cambiare disegno in corso d’opera. E lo sventolare di tale verità trovava un suo luogo nei comizi che, nell’urgenza con cui la Politica anima i suoi giorni più seri, si improvvisavano su un palco di poche pretese posto sul lato sud della piazza, notoriamente riscaldato dal sole fino al tramonto.  In tali occasioni si alternavano politici di ogni ordine e grado, venuti a scuotere la coscienza di Quelle che, intanto, stavano mute.
Si cercava di persuadere le manifestanti del fatto che la Civiltà, pur con una certa resistenza e con un andamento a macchia di leopardo, si era ormai avviata nel solco delle pari opportunità, richiamando con forza l’immagine augurale dell’aratro a rappresentare i fertili intenti con cui, almeno in quella parte del mondo, si erano seminati i campi dell’uguaglianza.  Purtroppo nei rari momenti lasciati al dibattito di cui peraltro nessuno dei convenuti sentiva una vera necessità, alcune rappresentanti della piazza ribattevano che la loro protesta era senza nemico anche se ben lungi dall’essere meramente simbolica, e in quel lungi la questione tornava a complicarsi, rendendo vano il continuare a discuterne.
Così la democrazia si prostrava alla ricerca di un senso, difendendo la logica dal precipitare nell’assurdità e, non da ultimo, dalla mancanza di decoro con cui questa si era presentata.

Per una lunga stagione non si smise di invocare a gran voce la ragione di una presa di posizione così assurda che, nell’ordine con cui si dispongono solitamente le conseguenze, aveva condotto al blocco della città, a deviarne il traffico, a cambiare le tratte degli autobus, a chiudere alcune fermate della metropolitana e a rettificare le mappe per i turisti perché non vedessero tutto quello scandalo di donne bivaccare in piazza senza un reale motivo. Si iniziò giustamente ad accusare le donne in protesta del trambusto che, quasi a tradimento, aveva richiamato la stampa di ogni paese con l’inevitabile moltiplicarsi di antenne paraboliche che avevano colonizzato i tetti, i terrazzi e i lavatoi dei palazzi del quartiere. Come se non bastasse la protesta aveva provocato ben due incidenti diplomatici e indotto la comunità internazionale alla minaccia di rivedere i parametri, e su questo argomento si può ben capire come i visi si accigliassero severi nel menare, a loro volta, lo spauracchio di una ritorsione. 
Infine la chiesa, nel suo articolato planetario, prese una posizione netta: considerando che l’Oggetto della protesta era materia di sua competenza e che la messa in discussione di dio rappresentava una fonte di grave disagio, rilasciò un comunicato Urbi et Orbi nel quale affermava che Si rendeva necessario il predisporsi di ogni mezzo, fino alla scomunica collettiva, Perché Egli non fosse tirato in ballo ingiustamente e, si aggiungeva, con una certa dose di malafede.
Nelle strade, nei cortili, nei luoghi di lavoro, nei centri di raccolta di questo o di quell’altro, nei circoli politici di ogni schieramento e nelle diverse istituzioni, negli ospedali come nelle caserme, nelle scuole come nelle chiese, si proseguì nel cercare ragione del perché Quelle, improvvisamente e senza un reale motivo, si fossero stancate del disegno di dio. Fu solo a quel punto, quando per sfinimento ci si infranse su un ostinato incaponirsi, che la storia si ritrasse, indecisa sul da farsi.

Scese la calma, almeno per quella volta.
L’umanità vicina si ritirò offesa, riparata dai giornali e dalla distanza dei dibattiti televisivi che finirono per collocare l’andamento della protesta nella coda delle priorità informative, lanciando servizi sempre più stanchi che scadevano laconici nella formula “e la protesta continua” seguita a volte - ma solo dai giornali più coraggiosi e radicali - dai tre puntini ravvicinati, punteggiatura chiaramente utilizzata quando si vuole segnalare una certa persistenza degli eventi e insinuare il timore di un’ipoteca sul futuro.
Come per i cicloni, l’occhio della protesta attirava l’interesse e i sentimenti più forti in misura inversamente proporzionale alla distanza, imponendo attenzione e insofferenza alle genti più vicine, perdendo forza e potenza man mano che ci si allontanava dal suo centro. Per il paese coinvolto suo malgrado in quella stranezza, la protesta era una macchia, un neo che suscitava, pur nella sua piccolezza, il timore di essere in difetto, di essere gettati per un’inezia nella diversità, e per questo si era in soggezione verso il mondo rimasto a guardare che, per il fatto di non essere colpito dalla sciagura si riparava nell’ironia con cui si contempla un malcapitato.
Al Creato non rimase altro che il ritiro delle truppe in una più comoda posizione di retroguardia, temporeggiando in attesa di un indirizzo qualunque: in tal modo la piazza fu lasciata a se stessa nell’indifferenza generale e, verosimilmente, si pose pazientemente in attesa della stessa cosa, anche se per motivi del tutto contrari. 
Anche fra le donne accalcate nella piazza da mesi, infatti, aleggiava un sentimento di indefinitezza, come se l’aver riposto in quell’unica idea una fiducia assoluta non premiasse quelle disgraziate del declinarsi spontaneo di soluzioni che in modo pressoché naturale sono solite associarsi a qualunque progetto. D’altronde uno sciopero contro l’Altissimo rappresentava una novità, un’esperienza sconosciuta per gli esseri umani che, nel dividersi fra credenti e non credenti e per il solo fatto di collocarsi nell’opposizione di due alternative, hanno da sempre escluso la necessità di discuterne l’operato.
Dalla presa d’atto di una tale pervicace consuetudine che tuttavia mal si conciliava con le loro volontà, le donne scese in piazza si predisposero, con le buone o con le cattive, a fare in modo che il mondo, finalmente, si mettesse sulla buona strada.

Fu allora che persero la parola in pubblico. O meglio si racconta che furono le parole a ritirarsi e in special modo dalle buone intenzioni che sono le prime a farsi spazio nel mondo. Per dirla tutta si trattò di una forma di stanchezza dei ragionamenti, un’astenia dei discorsi, una fiacchezza del moto che conduce ad annunciarsi, a portarsi sul precipizio della voce per far sapere, per proclamare, per essere attraverso il verbo.
Ma questo è ciò che racconta chi sa poco degli aspetti secondari della faccenda, costretto dalle circostanze a tenersi distante da quel bivacco di donne cenciose, seimila teste al censimento sommario che la Protezione civile aveva compiuto applicando le disposizioni della Circolare ministeriale emanata in via d’urgenza dal Governo, sulla base delle motivazioni di ordine pubblico e di decoro urbano a cui erano addivenute sia la Commissione opportunamente istituita a difesa del disegno di dio, che il Tavolo permanente di concertazione, il quale Tavolo, nella presentazione della relazione al Parlamento, aveva dovuto ammettere,  L’impossibilità di portare a compimento l’opera per mancanza di volontà della parte concertante.
A dire il vero ci furono non poche polemiche anche da parte di alcuni settori della Società civile, solo alcuni come sempre e in conflitto permanente con altri, in coerenza con quella disposizione tutta occidentale alla specializzazione, al ragionamento per ambito che, benché efficacissimo e di lunga tradizione, obbliga lo sguardo dell’anima nella prospettiva del particolare, costringendola alla nicchia ideologica da dove, in non pochi casi, lo sguardo cosiddetto di insieme si sfoca e vagheggia.
E così accadde che interi settori della società civile si allocarono nel Pro del censimento e altri, interi anch’essi, nel Contro, per evidenti ragioni reciproche e contrarie, opposte e simmetriche, tutte al contempo. Chi adduceva le ragioni di quella Civiltà richiamata da Voltaire e Beccaria, Rousseau e i primissimi scritti di Cartesio, e comprendendo nel cogito quell’anelito di libertà sotteso all’ambito di progresso umano strettamente inteso dai citati autori, affermava con orrore che, Il censimento delle donne in piazza si fondava sulla delazione di prossimi e contigui che nella denunzia di scomparsa dal tetto famigliare immettevano, senza garanzie di certezza del diritto, la povera disgraziata nel calderone delle Contrarie al disegno di dio, come ormai era in uso nominarle, avocando La necessità di un giusto processo per ciascuna secondo i tre gradi di giudizio e, quando possibile, applicando le eventuali attenuanti generiche. E nonostante si fosse per le vie brevi calcolato che per tale strada garantista ci sarebbero voluti 15 anni solo per censire un terzo delle sovversive, considerando i tempi non propriamente rapidi con cui la giustizia si impegnava strenuamente nella ricerca della verità, la quale spesso faceva di tutto per non farsi trovare, non ci fu alcun arretramento delle posizioni e la questione fu rimandata dritta dritta in Parlamento da dove, peraltro, era venuta.
Altri diversamente e per le stesse ragioni di Civiltà ed evidentemente citando gli stessi autori, affermavano che, La presunta e millantata delazione denunciata da quegli ambienti dove vige il lassismo dei costumi e delle idee, (intendendo i settori di società civile reciprocamente avversi) che avrebbero fatto meglio a tacere, altro non era che tutela amorosa delle Contrarie al disegno di Dio da parte dello Stato, laddove la civiltà trovava alveo e nutrimento nella gerarchia, nell’ordine delle cose, nella sicurezza, e richiamando l’importanza prioritaria e specifica di sapere Chi in tale costruzione si collocava e Chi ad Essa si sottraeva, per procedere celermente di conseguenza attraverso opportuno e tempestivo intervento delle quattro  forze dell’ordine e al supporto logistico dell’esercito che avrebbe circondato la piazza per evitare possibili vie di fuga, e con tutti i mezzi si sarebbe provveduto al censimento, ovvero all’arresto in flagranza di reato delle sovversive e al processo per direttissima, prevedendo una condanna da 3 a 5 anni senza benefici di legge.
Tuttavia tale soluzione che invero trovava un certo riscontro in alcune parti dell’opinione pubblica per il fatto di risolvere la questione in un men che non si dica, era impercorribile nel profilo del Diritto sovranazionale e intracomunitario che non mancava mai di mettersi di traverso alla Sovranità nazionale quando questa aveva da sbrigare un problema non previsto, assumendo, a detta di certi ambienti istituzionali più alla buona, il comportamento di chi ti aspetta al varco seduto in poltrona.
Fu forse per togliere dall’imbarazzo la comunità che le Sovversive, in quella e in poche altre occasioni, ritrovarono la parola, comunicando l’accettazione del censimento per alzata di mano, la delazione da parte di parenti e prossimi, l’eventuale denuncia e trasferimento in carcere se così si stabiliva, anche se, e questa sembrò ad alcuni una richiesta accettabile, avrebbero preferito un carcere all’aperto dove stare insieme, essendo l’insieme medesimo il senso della loro vicenda. Il comunicato si concludeva con una lunga profusione affettiva verso figli, parenti, amici e animali domestici e non mancava di salutare con immutata stima le Istituzioni ribadendo, tuttavia, la richiesta di prendere in considerazione il fatto che il disegno di dio fosse completamente sbagliato e che all’errore si doveva prima o poi porre rimedio, anche se quanto mai tardivamente.
A tali istanze l’opinione pubblica tutta si rianimò, divisa fra la necessità di una risposta equa e ferma, solidale e funzionale, tollerante e rigorosa e ne fu talmente prostrata che il Parlamento votò all’unanimità la proposta della Piazza, come per brevità si comprendeva la moltitudine in protesta, giocando di sponda e annunciando che in tal modo la Politica ne sarebbe uscita rafforzata e si può dire che di ben altri puntelli la Politica, nei giorni a venire, avrebbe avuto bisogno.

Mentre il Parlamento affrontava il percorso accidentato e impervio verso una qualunque soluzione, lavorando incessantemente a rispondere a interrogazioni e mozioni, delegando  due Commissioni bicamerali dell’elaborazione di un disegno di legge e delle misure più urgenti da emanarsi con Decreto, nonostante il cattivo odore che immancabilmente sovveniva al naso del Presidente della Repubblica ogni volta che sentiva aria di scorciatoia (considerando che tale dispositivo eliminava di un sol colpo la possibilità di insinuare il naso medesimo nei lavori parlamentari), e mentre Maggioranza e Opposizione finalmente rendevano merito alle richieste di una maggiore unità e pacificazione, le Nostre, non volendo perdere altro tempo, si diedero allegramente alla loro vita.
Non per farla breve, ma furono due le stranezze che lasciarono ulteriormente esterrefatti i concittadini i quali, avendo ormai esaurito la pazienza, pensarono bene di presentare una petizione al Parlamento (che l’accolse controvoglia) avente in oggetto Il ripudio delle Protestanti dalla Comunità locale, indirizzando la medesima per conoscenza all’Alta Corte, la cui istituzionale Altezza fu raggiunta e risvegliata a tarda sera dal Sindaco e da una cospicua delegazione comunale, perché ne ascoltasse le rimostranze in merito ai baccanali e ai simposi con cui le sciagurate, avendo scambiato la notte per il giorno, disturbavano il sonno meritato dei residenti.  A memoria quella fu la prima notte insonne dell’Alta Corte vista la pervicace volontà dei cittadini di discutere seduta stante la questione, considerando che ormai, per loro, una notte di veglia in più non avrebbe fatto differenza.
Per dare conto dei baccanali e dei simposi messi in atto dalle Nostre in raduno una notte sì e l’altra pure, si deve, a rigor di verità, fare chiarezza. E’ indubbio che qualcosa dovevano pur fare, se si considera la difficoltà di passare il tempo con le mani in mano in attesa di un’idea che stentava a sostanziarsi nel suo risvolto pratico che poi è quello che ci si aspetta da qualunque idea che si rispetti. Certo la scelta di far baccano ogni notte con canti e concerti a cappella, cori di soprano e contralto in alternanza, danze tribali e simposi che estenuavano la dialettica menandola su e giù per la piazza, non poteva che suscitare la stigmate dei più. Inoltre le infelici tracollavano appena dopo l’alba, proprio quando i Più sopra menzionati dovevano levare le esistenze per condurle al dovere quotidiano: la vista della piazza dormiente e per questo più colpevole, indusse alcuni, anche se in rari casi, ad innaffiare per rappresaglia le Belle addormentate con le pompe antisommossa, non cavandone purtroppo altro che un indifferente girarsi dall’altra parte, come d’altronde è solito fare chi ha molto sonno.

Ogni notte ce n’era una e niente fu risparmiato.
Furono organizzati baccanali tribal, new wave, rock, rock &blues, blues&soul, soul&jazz in tutte le possibili variazioni, e concerti di musica classica che non erano male, almeno così si diceva nel circolo degli anziani ever green della città.  A tali eventi una volta al mese erano invitati ospiti d’eccezione fra cantanti, autori, orchestranti, bande di paese e cantastorie i quali, pur di non mancare a quello che ormai era diventato un fenomeno di tendenza, benché qualche volta sotto le intemperie, erano disposti, solo in ragione dell’esser menzionati dai media sempre all’erta, ad affrontare il biasimo sociale che di tale forma artistica avrebbero fatto volentieri a meno. E benché tali esibizioni per ovvi motivi non fossero autorizzate, esse registrarono un certo successo di pubblico soprattutto fra gli sfaccendati di ogni età, i quali, come giustamente si sottolineava nei quotidiani il giorno successivo, Al pari di Quelle non avevano che da sfaccendarsi in qualcosa di meglio invece di contribuire al dileggio dell’ordine pubblico.
Per non parlare degli ipocriti che di giorno denigravano le reiette unendosi al coro, e di notte di soppiatto si avvicinavano alla piazza con l’aria di chi è lì per caso, cercando una di via di fuga alla noia dei giorni ed esperire, in proiezione, un soffio di libertà e di trasgressione che talvolta provano anche i buoi quando al guardiano capita di chiudere troppo tardi la stalla. Fra gli habitué di tali esibizioni si registrò anche la presenza di un serial killer, ricercato da anni, e che solo a causa del continuo trascinarsi lungo le staccionate della piazza come un lupo mannaro, fu invitato in questura dove, interrogato dall’Ispettore Capo, confessò l’insostenibile imbarazzo della scelta che da giorni lo aveva catturato, chiedendo se per pietà potessero condurlo in carcere dove con sollievo si sarebbe ritirato dagli affari.
Ma a parte queste eccezioni, verso l’imbrunire di ogni giorno, la cittadinanza si ritirava nelle case come sotto il coprifuoco e mentre i tamburi in lontananza annunciavano l’apocalisse, si predisponeva di buon grado a passare la nottata, sapendo che prima o poi questa doveva passare.

I miei fin troppo pazienti lettori mi scuseranno se precedentemente ho annunciato il darsi di quelle donne allo svolgimento di Simposi che solo ora mi accingo a spiegare. I simposi vennero dopo la lunga stagione dei baccanali, all’esaurimento di una fase sfrenata che doveva trovare uno sbocco naturale nella quiete. A quel tempo la piazza era ormai interamente circondata da alte palizzate ed era sorvegliata, ai quattro varchi, dall’esercito che controllava i documenti e i lasciapassare di chi si avventurava in visita o, nel caso della protezione civile, per l’umanitaria consegna di cibo e la pulizia dei presidi igienici allocati lungo i lati più lunghi di quello che un tempo era considerato il salotto della città.
 La perdita di uno spazio urbano così importante era un lutto mal digerito dai cittadini, e alimentava una sorta di rancore che non si sapeva dove posare: a volte sul nemico reale ben installato nel suo permanente bivacco, e altre su quello più astratto, l’Istituzione di turno che ancora non era riuscito a sgomberarlo. E il fatto che ad un certo punto il baccano notturno ebbe una fine, acciocché quel giorno la città rimase ben sepolta sotto le lenzuola per la grazia di un’intera notte di tregua, non produsse un reale cambiamento di stato d’animo della popolazione che, diffidente, coltivava il sospetto di una nuova fregatura.
In realtà la piazza non aveva relazioni con il mondo, in un certo qual modo era indifferente a ciò che succedeva all’umanità, la quale volontariamente si era separata al di là dei suoi confini ben sorvegliati. In fin dei conti la Piazza pensava che si dovesse avere pazienza, la specie umana è giovane e l’aver attraversato appena 10.000 anni di storia la diceva lunga sulla sua  resistenza ai cambiamenti.
Comunque sia fin dalle prime notti di quiete non si trattò di un vero silenzio.
Nel tentativo di animare il dialogo fra seimila anime, e con il preciso intento di evitare la confusione e la vanitá dell'oratoria, si ritrovarono a bisbigliare in piccoli gruppi, la qual cosa produceva una sorta di fruscìo insostenibile, un sibilo di vento che a molti concittandini provocò attacchi di cefalea, nausea e febbre. Logicamente la cittadinanza collegò il brusio a qualche trama oscura, mettendo in allarme i servizi segreti che ci misero un po’, come è normale visto la numerosità di tali servizi e l’ingerenza che in essi hanno quelli deviati, a prendere atto dell’innocenza dell’evento, dovendo passare, oltretutto, per l’imbarazzo di non conoscere la parola simposio, aspetto questo per inciso, che irritò il Ministro dell’interno il quale vantava alcuni studi classici ben chiusi nel cassetto.
Si trattò di primi tentativi e per questo presto abbandonati: le donne, come ormai ci avevano abituato, si organizzarono e, a turni, diedero via a Simposi notturni di tutto rispetto, organizzati secondo la regola della scuola socratica.

Furono notti intense quelle dei simposi, così intense che anche il cielo sembrava insonne, tutte le stelle si erano radunate sulla piccola volta della piazza, sulla testa di quelle donne straccione e pazze, pazze e perdute nell'idea di libertá.
La questione più urgente che risolsero di netto e una volta per tutte fu quella, spinosa e mai pacificata, relativa al corpo delle donne. Non fecero alcuno sforzo sull'argomento, il tempo di mettere all'ordine del giorno che il corpo delle donne è luogo di astrazione e fraintendimento, una categoria dello spirito per gli stolti di qualunque genere, persi nella notte del pensiero vuoto, quello che emana come odore di fritto dai salotti intellettuali e televisivi, sempre troppo comodi perché la verità, che è timida, si sveli.
Dissero che Era ora di finirla di confondere il corpo delle donne con la loro esistenza e che se una donna viene violentata non è il suo corpo a soffrire, ma la sua vita. E osarono affermare che l'aborto non riguarda il corpo delle donne, ma la loro volontà di essere madri e questo, ribadirono, dovrebbe essere semplice da capire anche per le donne che continuano a parlare del loro corpo come luogo di diritti, a farne un oggetto politico, lo spazio di un discorso ossessivo, instupidito dalla ripetizione di un'idea morta.
Sull'annosa e, a dire il vero, mai perfettamente delimitata questione delle pari opportunità ci furono discussioni più ampie, anche per dare conto della buona fede di certe argomentazioni, quelle che potremmo definire di buon senso e che si muovono prudenti a ragionare quel tanto che basta per non precipitare e sostanziarsi, anche per sbaglio, in un valore.
A questo proposito affermarono con certezza che Nessuna di loro voleva le pari opportunitá, quella melma innocua di idee sfrante e probabilmente disperate; Nessuna di loro avrebbe scambiato il pericolo della  libertà con la tranquilla e confortevole prospettiva di rimanere delle allegre liberte, al caldo del perbenismo che vuole le donne economicamente affermate, socialmente addomesticate, mentre la societá che non può risolvere, concilia il tempo di lavoro e quello di cura, senza provare vergogna nell' esprimere concetti tanto amari, si perde a contemplare i soffitti di cristallo e pensa, pensa con un certo impegno alle quote rosa, l'estremo rimedio di una strega in pensione.
Infine riuscirono a dimostrare scientificamente, anche se purtroppo non si è conservata traccia della metodologia nè degli innumerevoli calcoli in cui si erano strenuamente impegnate, che la stupiditá, la sete di potere, l'egoismo, l'ignoranza, sono ugualmente distribuiti fra uomini e donne e su questa base si poteva affermare che il disegno di dio, pur essendo sbagliato, era animato da un profondo senso di giustizia.
Dissero infine che Chi aveva anima nelle orecchie avrebbe ascoltato.

E un giorno tutto finì.
Come sempre accade quando ci si affranca dall’urgenza e dal bisogno, la piazza, al tramonto del giorno in cui tutto finì, cominciò a vibrare.
Un ronzio sordo saliva e montava nel suono fremente del brillare di piccole ali che sbattevano insieme, incessanti e insistenti sulla stessa nota a danzare di un ritmo oscillante, come un’onda che ascende e precipita, si protende e ripiega, si muove e ritorna. Le donne oscillavano veloci, ripiegate a guscio su se stesse, così vicine le une alle altre tanto da confondersi nell’unisono dei corpi vibranti, le anime fitte e compatte nell’intento di sostenersi a vicenda ed esperire l’ebbrezza. Fu certamente il dover trovare un espediente che le confortasse dell’essere insieme a sollecitare una tale trasformazione, come se solo nella grazia di un comportamento concorde e sottratto all’artificio della singolarità, si potesse superare il modo comune con cui i gruppi umani, grazie alla convenzione del verbo, riflettono sulle questioni più disparate e, nel perdurare dello scambio, avvicendano a uno a uno i modi di pensare. 
A un orecchio capace di sostenere un suono che ai più risultava intollerabile e che ad altri ricordava un richiamo vitale di cui, manco a dirlo, si era persa memoria, risultava evidente che le insorte comunicassero così in modo istantaneo. In altre parole - sempre che ve ne siano di adeguate a consegnare senso allo straordinario- si era d’un balzo superata la fatalità del confronto che tra le tecniche umane è la più esercitata per trovare un accordo.
Trovandosi nella necessità, anche per la gravità della situazione in cui si erano cacciate, di un sentimento assoluto di unione che al genere femminile era sempre mancato di un soffio, perdendosi nel labirinto dei distinguo, delle differenze e delle distanze con cui la cultura tutta aveva teso i suoi tranelli, finalmente - e qualcuno aggiunse per grazia divina,  insinuando un appoggio inaspettato da parte del celeste - quelle donne trascesero le forme, dando corpo a un sentire sconosciuto.
Alla vista di quanto stava accadendo e con il consueto senso pratico, le donne rimaste nelle case riferirono compunte alla noncuranza dei discorsi domestici, dell’insediamento nella piazza di un grande alveare e, perché non si desse troppo peso alla cosa, chiusero d’un colpo le finestre tirando ben bene le tende, accogliendo quell’annuncio d’api come un segno di buon augurio.
Al mattino la piazza era vuota e il mondo, come sempre succede, cercò di dimenticare.
Era, ma potrei sbagliarmi, il nove di marzo.


 Dedico questo mio primo racconto a mia madre, anche lei idea irriducibile, alle mie nonne e bis nonne dai nomi impossibili: Nella, Giacinta, Zibina, Esa, alle loro madri, e alle madri delle loro madri delle loro madri, una per una, a ritroso.
 9 marzo 2012















lunedì 5 marzo 2012

A Bersani non gliene riesce una

Ogni volta che il partito democratico prova a fare sfoggio delle sue idee piazzandole a prender aria alle primarie, insistendo sull'alta concezione della partecipazione democratica possibilmente condivisa in un ennesimo ma anche, c'è sempre un candidato sbucato da quel magma che chiamiamo società civile, un cane sciolto, un battitore libero che gi scippa l'osso, il comune, la provincia, lasciando tutti nello sconforto, specialmente Bersani che non si dá pace. Le primarie sono diventate un bagno di sangue, una punizione divina, una maledizione wodoo. Gli elettori del PD sembrano non aspettare altro: si mettono pazienti in fila dalla mattina presto, la tesserina in mano, il numeretto, mamma, babbo e parenti tutti, sembrano così affidabili, moderati, quell'elettorato sicuro, democratico, partecipativo, responsabile che non si sa che cosa gli è preso ultimamente ma voterebbe chiunque purché non sia indicato da Bersani o da Letta o Franceschini. E' una sciagura per questi poveri del PD che hanno perso qualsiasi capacità di comprendere la gente che dovrebbe votarli e che invece sono disposti a file estenuanti pur di fargli cucù e marameo. Bersani dice che le primarie sono un esercizio di democrazia, va bè, ma a questo punto non serve, sono irrilevanti. Basterá indicare un candidato che non sia del PD, che non ne abbia n'è l'aria, nè l'odore, l'informe manifestazione del pensiero, quel solito penzolare nel vuoto delle idee, e la scelta sará quella più aderente alla gente del PD. Che burloni questi moderati di centro sinistra! Fanno gli scherzi.

lunedì 27 febbraio 2012

La libertà di una donna d'occidente



Sono nata a  Ivrea, cresciuta all’ombra dell’Olivetti, madre azienda, madre comunità, un marchio sociale indelebile, posto ad uno ad uno su tutti i suoi figli.
Il fatto che già da piccola fossi, come tutti i bambini olivettiani, sottoposta a visite psico-pedagogiche, che ci fossero asili aziendali per le donne impegnate nel lavoro, e che non si respirasse quella cupa sensazione di isolamento tra piemontesi e immigrati del sud, come diversamente a Torino, città che trasudava tristezza, ha rappresentato una condizione di scenario per lo sviluppo della mia esistenza, che non posso e non voglio omettere.
Per la verità la maggior parte delle donne si trascinava ogni mattina nei soliti mestieri di operaia e segretaria, in famiglia era relegata all’imperitura funzione di riproduzione del codice sociale, e tuttavia abbiamo esperito collettivamente un modello che tentava altre vie, che delineava una diversa speranza, miseramente tradita durante il decennio buio degli anni ’80.
Mio padre e mia madre mi hanno cresciuto nella libertà. Questa parola era parte del vocabolario sentimentale, del quotidiano fluire della generazione, dall’adulto alla bambina, con tutte le contraddizioni che, una per una, sto ancora affrontando a 48 anni.
L’educazione alla libertà  si realizzava, come è logico che sia, nel suo senso più politico: essere nati negli anni ’60 comportava (ancora per poco) l’eredità della Resistenza partigiana e l’impegno per un futuro ingenuamente chiaro, quasi ineluttabile, la democrazia, l’uguaglianza, la fratellanza. Tale impostazione, con tutti i suoi meriti, ha certamente trascurato il fatto che la libertà è prioritariamente un oggetto della coscienza (personale e collettiva), e lo sviluppo del “mero” lato politico della questione non ha garantito, come noto, il conseguimento dello scopo ideale.
Ho avuto due genitori meravigliosi, strani, eccentrici, diversi in tutto, (mia madre cattolica, mio padre comunista, mia madre il sentimento, mio padre la ragione), in casa mia si parlava, si discuteva, ci si amava e a volte detestava secondo natura, lasciando il canone sociale fuori dalla porta.
E’ stata una bella esperienza essere figlia dei miei, almeno a guardarla da qui, non sempre a starci in mezzo, sballottata fra le onde dei Due che a volte sembravano moltiplicarsi come divinità pagane, amorevoli e numinose.
Sono cresciuta in un soffio, non mi sono accorta degli anni ’80, almeno non subito. E’ difficile rendersi conto dei mutamenti di corso, i valori sociali e politici si degradavano in sfumature impercettibili: a 20 anni, a Milano durante l’Università, nessuno più parlava di libertà, ma solo del primato dell’economia, e l’Olivetti, espugnata come una fortezza medievale intorno alla quale era cresciuta una tribù, un’etnia, un’enclave di eretici,  decadeva senza rimedio.
Non che fossi immune dal contagio. Sarebbe disonesto da parte mia negare il fatto che per molti versi mi sono abbandonata alla corrente accarezzando sogni di gloria materiale e individualista, e che ho contribuito, nella mia gioventù, alla falsificazione preannunciata da Pasolini, profeta in patria e a disposizione nella libreria di casa.
Al fatto di essere una donna pensavo molto poco. Davo per scontato la libertà, la parità, nell’ingenuità che affligge le generazioni successive, portate per incuria, per irresponsabilità, a disperdere il patrimonio conquistato a furia di cortei e collettivi solo qualche anno prima.
Nessuno più parlava di condizione delle donne, di femminismo, e l’ultima assemblea autenticamente politica a cui avevo partecipato, risaliva al 1978 per l’omicidio di Aldo Moro, quando avevo 14 anni.
Ho riflettuto su questa coincidenza, e mi lascio attrarre dalla suggestione che il movimento di emancipazione sia stato costretto a ritirarsi non appena gli uomini hanno ricominciato a sparare, nel 1977, quasi che l’umanità femminile si riduca per abitudine al silenzio, davanti all’orrore.
Tant’è, negli anni ’80 nessuno parlava più di niente, le donne erano tranquille, risarcite con alcuni diritti civili, e una parte di me stessa pensava che tutto procedesse per il meglio.
Ma si sa che la vita gioca contemporaneamente su più tavoli, e conservava per me, nelle stive interiori, semi d’erba selvatica, capaci di resistere alla rieducazione, al movimento che riduce  l’esistenza a norma,  che la piega, che la tradisce nei suoi aspetti più creativi e più liberi.
Ero inquieta, strattonata fra l’istanza inconsapevole, direi naturale, di essere (nel senso di essere quello che si è e quello che si diventa), e la volontà di appartenere al mondo e alle sue forme, di fare parte della comunità, di riflettermi nella moltitudine, per dare approdo al movimento soggettivo.
Invero questa contraddizione esistenziale mi era nota da sempre. Fin da piccola, con quei Due a nutrirmi a pane e libertà, pane e studio, pane e impegno, pane e autonomia, avevo assunto una forma diversa, che da fuori si vedeva. Ero semplicemente strana rispetto alle mie cugine, alle mie coetanee, e la cosa non mi rendeva felice.
Ricordo che da ragazzina avrei fatto carte false per leggere almeno un romanzo di Liala, divorato a chili dalle mie cugine e assolutamente proibito a casa mia dove vigeva, per la scelta dei libri che potevo leggere, una ferrea censura di impostazione sovietica. E l’allegra femminilità che animava le mie giovani amiche, nel vestire, nell’esercizio di quell’intimità che è solo delle femmine, nel fidanzarsi fin da piccole, attraversando tutta la gamma delle gioie e delle pene amorose, supportate nell’affrontare questo destino dalla sequela di madri, nonne e zie, e padri lasciati in disparte, mi suscitava forti sentimenti di inadeguatezza, visto che i Due facevano di tutto per tralasciare il tema, o per rimandarlo il più possibile, giudicando il matrimonio una finalità del tutto secondaria per la mia vita.
E tuttavia la femminilità (anche di quel tipo) mi albergava. Mi innamoravo, ero carina, corteggiata, l’intelligenza e l’impostazione “sovietica” (con qualche tratto maoista, e altri cheguevariani), non mi difendevano né dalle pressioni sociali, né da quelle psicologiche, che sono parte del tessuto della specie, della biologia dell’essere, e rappresentano le trappole sulla strada di ogni donna.
Credo che i Due, ad un certo punto, abbiano nutrito qualche dubbio nell’osservare la loro creatura alla ricerca del sentiero verso se stessa.
Bene, la verità è che ho voluto tutto, tutto quello che una donna della generazione di  mia madre non avrebbe mai osato chiedere.
Mi sono trasferita a Roma, ho voluto la carriera, la maternità, la libertà di amare un uomo e di non amarlo più, di fare due figli con due uomini diversi, fuori dal matrimonio, di vivere le mie stagioni, di essere la madre di Fausto e Alessandro, non una madre assoluta o astratta, ma proprio quella che sono, di vivere la gioia perfetta di essere sola quando è tempo, padrona nel mio ampio privato, pronta a vivere l’amore solo se accade, non come una necessità sociale, né uno status, e provando la meraviglia di attraversare il mondo come donna impegnata nella sua opera, nel suo lavoro, che può realizzare se stessa, amando i suoi figli, i suoi cari, i tanti amici, l’uomo che le è accanto.
Tutto questo mi è costato immensamente.
Il mondo, là fuori,  ha sempre remato contro, senza sosta.
La conquista di una posizione professionale (autonoma, senza rete) ha implicato un impegno sovra umano: anche in gravidanza ho sempre lavorato, fino all’ultima ora. Quando ero più giovane guardavo a queste imprese con noncuranza, oggi ne sento l’ingiustizia, lo sfruttamento.
Conciliare la vita professionale con la maternità vuol dire sottoporsi ad una disciplina eroica, che solo l’amore può facilitare, mitigando i momenti di smarrimento, di stanchezza, quando devi fare appello a tutto il tuo coraggio per resistere e non mollare.
E per la verità il nemico non stava sempre fuori, perché come ho detto, la libertà è un oggetto della coscienza, è un discorso con se stessi che implica sofferenza, impegno, disciplina, essendo la coscienza estremamente permeabile all’omologazione, alla gregarietà e facilmente confonde le esigenze del mondo con le proprie.
Non mi sono piegata e, oggi, nonostante le pressioni esterne continuino pervicacemente ad operare per rendere la vita oltremodo difficile, sento di essere arrivata a me, a quell’essere che mi cercava fin da ragazzina.
 Lo so, sono partita da lontano e forse non arriverò,  ma il tema della discriminazione delle donne non si può esaurire nella semplice osservazione del suo angolo.
Pensare alla discriminazione come mera lesione dei diritti delle donne  è conseguenza di quel misero indirizzo politico denominato “pari opportunità”, dove qualunque visione politica e personale della libertà e dell’uguaglianza è ridotta all’angusto, alla prospettiva corta, priva di energia, di vita, di immaginazione.
Se la discriminazione si osserva rispetto a questo standard, dobbiamo avere il coraggio di affermare  che lo standard è mediocre. Qualunque donna che conservi ancora l’anima vigile, sente nel profondo di se stessa l’ipocrisia sottesa alle famigerate pari opportunità, che rappresentano solo il bieco compromesso a cui ci siamo piegate.
Non credo alle pari opportunità: io voglio l’uguaglianza, la libertà,  un mondo più intelligente e non mi adeguo a mortificare queste idee con parole vuote, vanamente astratte.
Non pensiate che io sia nostalgica delle piazze, o del femminismo urlato, duro e puro. A quella stagione sono molto grata, ovviamente, perché mi ha dato diritti che mia nonna e tutte le donne prima di lei non hanno conosciuto. Rifiuto altresì questo vuoto movimento femminista contemporaneo che, cercando di scimmiottare l’originale, si perde nelle stupidaggini del linguaggio di genere, Gentile ministro, Gentile ministra, poche idee incartate in gergo politicamente corretto.
E intanto qui crepiamo di fatica.
La questione, purtroppo, è di ben più grave portata rispetto alla semplice discriminazione.
Le donne stanno male, ma non lo sanno e quando lo sanno non lo dicono e se lo dicono diventa una lamentela intima, fra amiche, come le ragazzine della mia adolescenza.
Le donne lavorano, lavorano, lavorano, fanno sempre qualcosa, ormai arrese a questa ignobile parità che le ha messe a tacere anche quando, in metropolitana, stanche dopo una giornata di lavoro durante la quale hanno già detto troppi sì, appese al corrimano, le buste della spesa, la testa piena di figli, di mariti, di case da governare, si ritrovano lo scemo in pantaloni ben accomodato sul sedile, la camicia ancora in ordine (stirata da una donna), la faccia decisamente meno stanca, la testa spesso nel pallone, che non si alzerà per cederle il posto,  tanto c’è la parità.
E il problema, in questo esempio banale, non è tanto la discriminazione (che inizia dalla mattina e in metropolitana non si è ancora esaurita), quanto il fatto che la signora appesa al corrimano non sa dare un nome allo sfruttamento, qualcosa le ha tolto la possibilità di rendersi conto, è in piena emorragia energetica, mentre il mondo pensa alla partita.
Io non odio gli uomini, ma credo di avere qualche motivo per stare in guardia. Sempre a proposito di femminismo contemporaneo, una delle ultime (e ormai tritatissime) idee è che gli uomini abbiano paura delle donne. Davvero? Non mi risulta che gli uomini siano violentati dentro le loro case, picchiati, uccisi dalle loro mogli o compagne. Chi dei due soggetti ha motivo di avere paura?
Mi si risponde che l’uomo ha paura dell’indipendenza e dell’autonomia della donna. Chi? Quello della metropolitana?
Insomma si può parlare di discriminazione quando l’uguaglianza e la giustizia siano pienamente realizzate e si osservi, in qualche caso, un’eccezione. Nel nostro sistema le eccezioni sono troppo numerose, diffuse, automatiche.
Ciò che succede alle donne d’occidente non è semplice discriminazione, ma qualcosa di più sottile, malefico, pericoloso per l’integrità psichica: la riduzione a personalità addomesticate, a diventare delle liberte con l’anima morta, private dalla capacità di riflettere sulla propria condizione umana, separate le une dalle altre in modo che non vi sia terra per i semi d’erba selvatica.
La libertà deve essere prima di tutto ripensata da noi stesse, a partire dalla nostra vita, perché purtroppo il personale è ancora politico e non abbiamo finito il lavoro.