venerdì 13 gennaio 2012

Esercizi per una storia



   Mio padre è ancora vivo, ma non vorrebbe.
 Veramente mio padre è rimasto vivo per poco, lo spazio di una notte, forse.  Scivolò lentamente in uno stato di torpore appena si accorse che questo lo avrebbe salvato dall’essersi ammalato di mia madre, di esserne stato ridotto ad una specie di maiale come del resto aveva fatto Circe, provando un certo sollievo nel riconoscere il suo stato in un precedente tanto illustre. 

  Sono certo che nei primi giorni di inarrestabile annegamento, prima che la sua anima toccasse il fondo senza troppo rumore, si sia aggrappato all’idea di averla incontrata per uno sbaglio esatto, come nel caso, non così raro, di morire per una tegola al primo colpo di vento o per un fulmine a ciel sereno.  E in quell’ultimo quanto inutile annaspare che ovviamente consisteva nel cercare a tutti i costi una ragione, fatto di per sé inapplicabile sia alle tegole che ai fulmini, l’esattezza e la puntualità delle circostanze lo aiutarono a rendere meno penoso l’abbandono.

  Non ci fu bisogno di alcool come quelli che ogni sera si ritrovavano al bancone del pub all’angolo per trovare una scusa, una scusa qualsiasi per farsi fuori dal mondo; la sua fine, per quanto possibile, si era tenuta ben lontana dalle scorciatoie e il dormiveglia che ne avrebbe accompagnato i pensieri e l’agire, gli era salito come la bruma che di inverno ricopre le nostre colline spoglie e affaticate da un cielo mutevole.

  Lo guardavo al ritorno da scuola quando mia madre, catturata dall’orlo di una tovaglia e incupita dietro gli occhiali spessi su un libro di orditi e ricami fitto di appunti, rimandava il grattacapo di distrarsi per prepararmi la merenda, contenta a suo modo perché anch’io, al pari delle altre faccende, ero tornato al mio posto.

  In quel breve tempo che mia madre per grazia ci concedeva, osservavo mio padre come un entomologo al cospetto di una creatura non classificata: la rilassatezza del corpo nel suo insieme e nel particolare di ogni muscolo, di ciascuna piega che la pelle era stata costretta a compiere sospinta dalla pinguedine e dall’assenza di moto, lo facevano assomigliare ad un soprammobile importante sfuggito alla disfatta in cui cadono anche le case più ricche, legate alle disgrazie delle generazioni di mezzo.
  Aveva un che di monumentale, non solo per l’imponenza delle forme che ormai avevano avviluppato la poltrona, ma per il fatto stesso della sua immobilità, tanto solida quanto pervicace, al punto che non si poteva distinguere se respirasse o se anche di questa necessità fosse riuscito a fare a meno.

  Si alzava piuttosto presto, ben prima di mia madre, per raggiungere la cucina a legna sovrastata da un giardino pensile di tegami, padelle e cucchiarelle di ogni specie, e maneggiando con leggerezza gli utensili verso i quali per analoga condizione provava una certa affinità, si preparava il caffé che sorseggiava in veranda, luogo di primo rifugio all’incombere delle faccende casalinghe.
  I brevissimi spostamenti a cui si obbligava per sopravvivere all’arco della giornata sfuggendo all’operosità di mia madre e che lo conducevano dalla veranda al salotto e da questo alla cucina, venivano compiuti, nonostante la mole, con assoluta leggerezza, badando a non sfiorare i vasi di cristallo pieni di fiori che mia madre disseminava come tranelli lungo il suo tragitto.   Appena ne sentiva i sospiri puntigliosi nell’avvicinarsi progressivo, stanza dopo stanza, a levar polvere, a lucidare maniglie, declamando l’assurdità del finale dell’ultimo romanzo d’appendice, mio padre riusciva, e davvero non si sa come, a sollevare quel monumento di carne eretto alla virtù dell’assenza di moto e a dileguarsi, lasciando, come unica traccia di sé, un’enorme impronta sulla poltrona.

  Poiché mio padre aveva lasciato il lavoro subito dopo il matrimonio, vivevamo dei ricami di mia madre che nel naturale diffondersi dell’invidia al vedere tanta bellezza ornare la casa del vicino e non la propria, divennero in breve leggendari in tutta la regione, e non c’era massaia o giovane sposa che non facesse sfoggio di possedere una tovaglia, una tenda o almeno una dozzina di fazzoletti ricamati dalle sue piccole mani.   La loro bellezza risiedeva nell’originalità e per quanto ci si sforzasse a comparare i diversi corredi, le lenzuola, le tende, le tovaglie che negli anni aveva ricamato, non se ne trovava mai uno uguale all’altro.
  Per ciascuna ordinazione mia madre si prendeva il tempo necessario a sviluppare l’idea traendo ispirazione dai romanzi d’appendice che continuamente divorava e dei quali rimaneva perennemente insoddisfatta vuoi nella trama vuoi nel finale: su questi prendeva appunti, cambiando parole, stravolgendo il senso delle frasi finché, rileggendoli, si sfiniva in un appagamento che la lasciava fuori di sé. Poi finalmente al tavolo da ricamo riunificava le storie secondo intrecci diversi, ispirandosi ai pettegolezzi e agli eventi insignificanti che accadevano alla nostra gente perché non potessero fuggire, imbrigliati per sempre in un disegno.

  Quando mia madre morì, nessuno pensava potesse succedere. 
  Quel giorno il paese si raccolse dietro il feretro come una processione di comparse accomunate dalla certezza che non avrebbero mai potuto svignarsela da lei, dalle trame fitte dei suoi ricami che sembravano conoscere il futuro solo per il vezzo di cambiarlo all'ultimo momento.
  Mio padre non venne al funerale e a casa lo trovai in piedi a scolarsi una birra dopo l’altra, con una foga da animale sciolto e disperato, lasciato solo, beffato dalla sorte che lo aveva reso libero e destinato come i vivi al movimento, al tempo che per tutti quegli anni era riuscito, non senza sforzo, a fermare.

Scritto da Mt@ nel 2006, come esercizio di raccontare sulla traccia di "Filippo" di S.R.(2003)- all rights reserved

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