mercoledì 29 settembre 2010

Non mi hai mai baciato

L’amore per lui l’aveva abbandonata da tempo. Inesorabilmente l’affetto si era diluito nella ripetizione, nel diradarsi della tenerezza che i primi anni si affacciava agli occhi dopo essersi consumati di furia, rubando corpo dal corpo dell’altro.
Ti sbatto, le diceva prima di assalirla, e lei si faceva sbattere finalmente libera di essere una cosa, una cosa riempita, gonfia, piena di un gesto che nel possederla si abbandonava e si perdeva in lei. Lo sentiva ansimare e finire in fretta per sbarazzarsi della voglia che gli riempiva la vita, trascinando i giorni nell’ossessione di starle dentro un’ultima volta. Bastava che gli voltasse le spalle per scatenarlo appena entrati in quella camera d’albergo, sempre la stessa per trent’anni, una volta al mese, la chiave lasciata sul bancone dell’ingresso come la più inutile delle abitudini.
E lei, la cosa, l’equivoco, gliele voltava a tradimento quelle spalle piccole e magre, fatte apposta per tenerle ferme con facilità, quasi docili eppure tese, contratte nel resistere alla presa, perché si avverta che è viva e ti aspetta.
Lo aveva amato? Si. Lei, puttana vera, il mestiere che diventa un odore, che ti si appiccica alla faccia, il modo di attraversare la vita come si cammina su un marciapiede, aveva amato quel giovane lupo, i suoi balzi nel bosco, il canto alla luna, quel furtivo affacciarsi all’angolo per braccarla. Lungo la strada la teneva stretta, sollevandola quasi da terra per trascinarla in quel buco sporco dove era a disposizione di chiunque, estranei senza volto, eppure ognuno con un particolare modo di starle addosso che non lasciava traccia, a parte la brutalità del denaro.  Con lui era diverso. Sentiva gioia in quel camminare frettoloso verso l’albergo senza dire una parola, i passi sulle scale, ritrovarsi senza scampo con le mani aggrappate a quella forza che la cavalcava finalmente senza vergogna, il legno vivo piantato dentro il corpo a dare colpi nell’affanno di finire, ancora, ancora, mentre il tempo si allunga e scorre lentissimo.
Poi lui scappava, si allontanava come un reietto, un clandestino, un cane. Sì, era cane quando scappava, cane senza tana, senza padrone, senza casa. Cane dimenticato e senza memoria, cane vuoto e disperato.
Perderai il pelo gli disse un giorno, mentre lui si rivestiva in fretta, con quel fare distratto già rassegnato al ritorno. Diventerai vecchio maledicendo il segreto che mi sta dentro e che non riesci a cavarmi, ci morirai un giorno su questo corpo che non guardi, su queste labbra che non hai mai baciato.


14 dicembre 2009 – tentativo di un micro racconto erotico



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