martedì 5 ottobre 2010

LETTERA AD UNA GIOVANE INTELLETTUALE (2006)

Ehi tu, 
ieri non ho trovato le parole giuste, quelle beffarde e malandrine si ritirano scontrose e imbronciate quando il pensiero non è esatto e si accompagna claudicante ad immagini imperfette. E tuttavia qualcosa ho in mente, mi frulli in testa di discordanze, a volte una distanza che seguo come la coda di un cane.
Ciò che mi si proietta, vivo solo per un momento, un sasso che diventa suono d'acqua bucata, è la tua assoluta e immediata giovinezza.
Sembri camminare circondata dagli uccelli come Francesco, le idee per traiettorie inconoscibili ti si posano sulle spalle nella certezza che non le tradirai, che le conserverai nella loro purezza, esatte nell'essere del tempo, dell'istante.E così puoi intrecciare glicini e girasoli, anche nella consapevole, ma non meno innocente, sfrontatezza di astrarre una forma dalla loro assenza e poi mutarne il senso per lo stesso spirito giocoso, a tratti irriverente, con cui vesti di parole ogni apparenza del possibile.
Sento fra noi una distanza che si evoca prima di rappresentarsi degnamente, qualcosa che appartiene ai modi del sentire più che a quelli del nominare, ma non ti nascondo l'incantata ammirazione per tutto ciò che in te mi insinua, senza pudore, il sospetto di una mia mancanza, l'incapacità di affrontare una diversa gradazione di umanità.
Ecco perché ti ho dato un nuovo nome e nominandoti a quel modo, nel prefisso di un superlativo con cui ho connnotato il tuo distinto tipo umano, ho preferito ammettere la mia estinzione, ripudiando la colpa di non riuscire a concepirti.
Ma parlavamo di giovinezza, e io divago.
In te ogni cosa è giovane, nata per vizio della terra di riprodursi dando luogo, a volte, al mutevole, a ciò che sfugge all'ordine con cui le creature si pongono solitamente ai piedi del celeste.
Hai il piglio, il motto di spirito che incarna "l'esistenzialista mistico che non attende la grazia", che risponde, rappresentando di sé un vuoto di carità anche nella privazione del proprio sentimento, quando e forse sempre necessario, e la spregiudicatezza di riscattare l'umano dalla sua inferiorità.
Questa è l'umana giovinezza che io vedo in te, lo splendore dell'intelligenza pura, la stagione delle idee, del fecondo e del digiuno, della testa piena e dei piedi scalzi, nella sfida di essere in quanto presente, in quanto adesso, l'istante, ora o mai più.
Sei così leggera di teorie che tratti come bambole di carta e nel contempo immanente  nel descriverti felicemente allo sbando, riparata dal fatto che tutto, al più, è una finzione e certamente, come affermi, la storia lo è senz'altro.
Ma vedi, posso dirti di aver smesso di camminare sui tetti quando mi è cresciuta la pancia, e dalla storia sono uscita da altre porte, diverse dalle tue: per miopia dell'immaginario, non ho visioni di lune che esplodono.
Eppure esperisco, a mio modo, per sentieri diversi, meno trasparenti e probabilmente clandestini a me stessa, l'universale. Nel rendermi indistinta e indistinguibile da chi mi ha preceduto, nel fare memoria, comprendo in me il senso del tutto che si perpetua.
Il destino di appartenere intimamente, di essere io stessa consunstanziale ad una ripetizione, è ciò che io sento più consono, per alcuni versi irrinunciabie al percorso conoscitivo che ho intrapreso.
Ciò che per te può esprimersi anche nell'indiffferente, al mio sguardo assume le fattezze di ciò che essenzialmente riconosco, là dove si nasconde la paura innominabile e ultima,  nella dinamica, nella tensione di dare un senso qualunque alla nostra esistenza, in ogni percorso e in ogni destino, e ancor più nelle sue forme immorali, nell'ingiustizia, nell'errore, nell'idiozia, intravedo il molteplice umano.
Forse diventare vecchi è il cadere inesorabilmente nella fratellanza fra uomini, nel tornare lentamente ad essere parte indistinta di questa comunità, avendo perso tutte le idee per la strada, con le spalle private del volteggio degli amici uccelli, e tuttavia serbandone un ricordo vitale.
E dal mio punto di vista, ora che ti conosco e diversamente da quanto ti ostini ad affermare, non potrei confondere la tua memoria, e anche quando questa decidesse di confondersi come mi annunci, sempre questa cadrebbe fra noi, avverto una sorta di contentezza nel riuscire a comprendere il punto dove lanciarti una corda per essere certa che, anche nella disgrazia di non capirti e di non concepirti, ti sono umanamente legata.

Maria Teresa
(14 novembre 2006)

p.s. Ti lascio qui in fondo un pezzo che ho letto ieri sera cercando risposte alla mia confusione su di te e sulla politica, di cui ho tentato vanamente di scriverti nei giorni scorsi, senza riuscirci.

Estratto da: I Giovani e l'attesa di Pier Paolo Pasolini
"Il setaccio", III, I° novembre 1942

Abbandonata senz'altro la facile pompa di una giovinezza intesa come gagliarda o fresca prepotenza, ci ritroveremo dispersi ed umili, in mezzo alla folla che ci soverchia. Coscienti che, prima o poi, dovremo segretamente patire in intensità tutte le distese esperienze di chi ci ha preceduto, non abbiamo nemmeno timore di ammettere l'impotenza, o, almeno, l'acerbità, di questo nostro stato d'attesa.
Tuttavia quasi spinti da un meccanismo che ci trascende, muoviamo verso il futuro e apriamo le nostre voci, ma chiudendo gli occhi, abbandonandoci, come presaghi della vana fatica e della fine.
Che valore avrà la nostra parola? essa è casta, ansiosa e, forse, non scade nemmeno a facile testimonianza della nostra presenza. Non sarà certo questo che ci potrà sostenere nel cammino della poesia, e nemmeno in quello, più dimesso, della cultura. Così senza speranze sensibili, incominciamo quasi rilasciandoci in una distaccata e chiaroveggente ironia, decisi solo nella nostra conscia sofferenza che, d'altronde, non s'è ancora chiarita da recarci ad una più alta e limpida assuefazione.
.....Al risveglio è simile la giovinezza e come il giorno a poco a poco consuma l'alba, che inerte si abbandona al mutamento, così nelle generazioni dei giovani, che a una a una passano, gridano, giungono alla meta e, giunte, si volgono, stupite a guardare chi senza scampo viene a sostituirle, grava un gelo indifferente di silenzio. Ora è la nostra volta:; unica certezza in questo stato d'attesa è la nostra ansia che ci macera; e se la coscienza che tutto cadrà nel silenzio, ci turba, la fatica costante, che è diventata quasi un duro mestiere, di consocerci e conquistarci, smentisce ogni esitazione, quasi con una contraddizione naturalmente e virilmente acquisita, che ci infonde una più segreta speranza.
.....Davanti a tale verità noi sentiamo che la nostra ricerca interiore dovrà svolgersi in solitudine; amici e gruppi di amici non cesseranno mai di esistere, perché non verrano mai meno la simpatia umana e la corrispondenza degli affetti, ma noi consideriamo ormai non solo tramontata, ma remotissima, l'epoca delle riviste, delle correnti, degli "ismi", insomma. 
Si è sentito parlare in questi ultimi mesi abbastanza spesso di nuovi movimenti, o meglio di constatate condizioni letterarie (neoromanticismo, neoumanesimo, ecc.); senz'altro tutte queste denominazioni hanno qualcosa di giusto e di vivo. Ma tutte sono sostanzialmente false alle origini. Noi non vogliamo avere un nome: o meglio ciascuno di noi vuole avere il proprio nome. Come non siamo fascisti, se senza mutare il senso della parola, possiamo chiamarci italiani, così non vogliamo chiamarci, genericamente, né moderni, nè tradizionalisti, se modernità o tradizione non significano altro che viva aderenza alla vita vera. 
Come si è visto non abbiamo proprio niente contro cui batterci, contro cui rivoltare le nostre armi o la nostra gazzarra. Non chiediamo altro, a noi stessi, che di essere dolorasamente coerenti alla nostra attesa e, agli altri, di non umiliarci nei nostri altissimi impegni.

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